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Il mio nome è Cruso, non Crusoe! Il Foe di Coetzee

by Cinzia Cicatelli

Che ne pensate di un Robinson Crusoe decrepito e rimbambito, invece dell’arrogante self made man inglese? E se sull’isola fosse arrivata una donna, cosa sarebbe successo secondo voi?

I librofili di ogni età e genere tendono a dividersi in due gruppi: gli amanti dei classici e i fan dei bestseller contemporanei; in realtà esiste un modo per coniugare entrambe queste preferenze letterarie, traendo il meglio da ambo i filoni: usare la storia “classica” – con i suoi simboli e i suoi personaggi ormai consolidati nel nostro immaginario e a cui siamo tanto legati – e ribaltarla, trasformarla, impreziosirla grazie alla creatività narrativa delle scritture moderne (ops, post-moderne!).

Riscrivere un grande capolavoro della letteratura classica è un vero e proprio azzardo: si corre il rischio di inaridire l’originale, imporre una prospettiva tendenziosa o più semplicemente operare una  vuota imitazione. Non è il caso del Foe di Coetzee (Città del Capo, 1940), vero e proprio masterpiece nel filone delle riscritture post-colonialiste delle grandi opere del passato, che esalta le potenzialità della narrativa post-moderna.

Lo scrittore sudafricano – vincitore del premio Nobel nel 2003 – riesce a riscrivere la celeberrima avventura di Robinson Crusoe, nata dalla penna di Daniel Defoe, l’indiscusso padre del romanzo borghese, utilizzando tecniche narrative tradizionali e sperimentali (la descrizione, il carteggio, il flusso di coscienza) e punti di vista completamente differenti (quello femminile, quello subalterno) per decostruire e ricostruire una storia che riesce a diventare altro da sé, altro dall’originale.

  La parola è data alle voci non ascoltate dalla storia ufficiale (e non soltanto narrativa) e cioè alla donna, Susan Barton, protagonista borderline del romanzo, e al servo Venerdì, muto e mutilato, simbolo di tutti gli schiavi a cui è stato negato il diritto di raccontare la propria verità.

Ed è proprio la storia di Venerdì, segreta e perturbante, ed il suo assordante silenzio a costituire il nucleo centrale del romanzo, tanto da diventare un’ossessione per Susan, sia durante che dopo la permanenza sull’isola. Cruso (e non Crusoe, come quello di Defoe) non è più l’uomo-simbolo del positivismo inglese, l’uomo che si fa da sé, l’uomo della fede e del progresso, ma è un uomo senza più memoria, in cui verità e menzogna si confondono, in cui sono sovrane solitudine e smarrimento. Il “self-made man” è un inetto, un uomo inaffidabile e lo è altrettanto anche la sua versione della storia. Non a caso Coetzee intitola il suo libro Foe: non solo “Foe” sembra essere il cognome originale di Defoe (il “De” è un guizzo di vanità aggiunto dallo stesso scrittore per fingere una discendenza più aristocratica), ma nello stesso tempo significa “nemico”, “diavolo”.

Coetzee spalanca gli orizzonti del lettore in ogni senso, allargando anche il teatro della scena e i suoi attori: non c’è più solo l’isola con i suoi due attanti, ma spazi diversi, comparse enigmatiche e fugaci, colpi di scena, misteri che sembrano irrisolvibili.

La fiction diventa storia e lo stesso Daniel Defoe diventa personaggio narrativo. Si perdono i contorni degli eventi, tutto viene messo in discussione, viene annebbiata persino la capacità stessa del lettore di discernere il vero dal falso. Ma nel caos narrativo che crea Coetzee, il silenzio di Venerdì brilla come un diamante grezzo ed inafferrabile. Splende in sottofondo come tutte quelle verità disarmanti e spaventose che aspettano solo di essere riportate alle luce e interpretate con coscienza da chi legge oltre la superficie.

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