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ITAlenti. Walter Ricci, cantante

di i-Cult

Anche per questa volta lo spazio polifunzionale dei LETTERATI ci ha ospitati per intervistare Walter Ricci, giovanissimo e talentuoso cantante che semplicemente parlando della sua passione ci ha trascinati nelle atmosfere del suo amato jazz.

Età: 23

Residenza: Grumo Nevano

Talento: cantante jazz

Quando hai iniziato a cantare?

Quando avevo 11-12. Ho iniziato per puro caso, in maniera molto spontanea perché mio padre aveva un vecchio giradischi e ho iniziato ad ascoltare i suoi vinili jazz. Rimasi subito molto colpito da questo sound che non avevo mai sentito prima di allora e mi venne voglia di approfondire. Iniziai a frugare tra tutti i dischi di mio padre, a quel tempo non c’erano molti cd di quel genere. Mi appassionai a questa grandissima cantante jazz, Sarah Vaughan, che mi folgorò letteralmente. I miei primi passi verso il jazz li ho mossi così. È un genere che più ascolti, più lo desideri, più lo approfondisci. Così ho iniziato ad ascoltare Freddie Hubbard, bravissimo trombettista statunitense che ha fatto la storia, e poi tanti e tanti altri.

Qual è il tuo punto di riferimento?

Dopo Sarah Vaughan, pensai che dovevo ascoltare un uomo e mio padre mi fece sentire Frank Sinatra: mi  sembrò un angelo che cantava, e ancora la penso così.

Sei stato subito consapevole della tua vocalità?

Non proprio. Sono stato consapevole subito della mia passione. Poi ho cominciato ad imitare Frank Sinatra e i croner classici e da lì iniziai a capire che era quello che volevo fare e che forse ero portato a farlo. Seguendo lezioni in una scuola privata ho imparato un po’ di standard, abbinando lezioni di tecnica locale e cantando con impostazione classica. Cominciai a partecipare a qualche jam session a Napoli al Montecristo Café, che oggi si chiama Noir, di fronte lo stadio Collana. Lì ho anche conosciuto diversi musicisti con cui sono in contatto ancora oggi. Iniziarono ad arrivare i primi complimenti che mi incoraggiarono ad andare avanti, che mi spinsero a pensare “beh, allora qualcosa la so fare”. Pur essendo molto giovane, ho iniziato molto presto, per cui ho avuto modo di confrontarmi con molti artisti di spessore che mi hanno portato ad avere molte evoluzioni dentro e fuori di me. Ad esempio ho studiato jazz con una bravissima insegnante, Loredana Lubrano,  e in un’altra scuola con Annamaria Romano, dalla quale ho imparato la tecnica classica. Studiando in queste scuole e conoscendo vari musicisti, venne fuori l’idea di partecipare a qualche concorso ed io scelsi di concorrere al “Premio Massimo Urbani”, dedicato ad uno dei più grandi sassofonisti contraltisti italiani. Avevo 15-16 anni, più o meno, e registrai qualcosa a casa in maniera amatoriale, incidendo su delle basi standard già pronte di Jaemy Aebersold nel suo Song  Book, sulle quali tutti si esercitavano. Pensavo di non avere nessuna speranza e invece mi selezionarono. Durante le prove che si tenevano di pomeriggio conobbi gli altri 6 partecipanti, tra cui c’era Andrea Rea e Luigi Di Nunzio, oggi un bravissimo pianista. Iniziai a conoscere un sacco di gente. Al concorso ti accompagna un trio di basso, contrabbasso e batteria già affermato, che aveva molto peso nella votazione. Vincere la competition  fu il punto di partenza della mia carriera. Fu riconoscimento davvero importante che mi indusse a studiare in maniera ancora più seria. Hanno vinto il premio artisti come il giovane sassista siciliano Francesco Scafisio, Alfonso Deiadda, Rosario Giuliani, che ci fanno onore in tutto il mondo.

SONY DSCPrima e ultima esibizione: differenze?

Sono cambiate un po’ di cose dalla prima esibizione. Io sono entrato nel tunnel del jazz qualche anno dopo le prime jam session.  Adesso vivo la musica in maniera totalizzante, ho un rapporto quasi morboso. Con gli anni cambia la tua attenzione quando ascolti il jazz. Con le esperienze, lo studio e la maturità ascolti tutto in maniera differente; cambia proprio  il tuo modo di pensare, la tua testa e il tuo approccio. Capisci cose che prima non capivi e quindi le stesse canzoniti suggeriscono cose diverse. La mia ambizione è girare tutto il mondo, curando, però, bene la mia musica. Ispirandomi ai grandi, ma da cultore della musica, non imitatore. Tra gli artisti che ti spingono di più c’è Miles Davis, la cui musicalità immensa e le grandi ritmiche sono la sua vera grandezza. Uno dei sui concerti più belli è il live Unplugged nickel, dove suona in maniera incredibile e senti emozione, calore, suspance, il pubblico in delirio, un orgasmo musicale in circolo.

Tu hai accennato alla possibilità di vivere con la musica: quali difficoltà si possono incontrare?

Le difficoltà quando tu vuoi lavorare con la musica, possono essere migliaia, come anche zero. Penso che se tu sei una persona che vuole dare un valore non solo emotivo, ma interno, che ti nasce dentro, già che ami la musica, e hai la passione, e hai qualcosa da dire, hai già vinto: se canti e suoni bene, pure se non hai successo, hai vinto. Hai la passione, la voglia di fare, hai il talento: che vuoi di più? Sì, il successo è una gratificazione, ma è una gratificazione comunque relativa. E’ una gratificazione per chi vive la musica sotto un altro modo, sotto un altro aspetto, la vuole vivere “speculando”, usandola, strumentalizzandola. Uno dovrebbe farne innanzitutto un valore interno.

Ma per chi non ambisce alla fama ma vuole lavorare con musica?

Lavorare come musicista sicuramente comporta delle difficoltà, specie quando ne fai un lavoro e ti servono i soldi. Ma considerate che se ti accerchi di gente che vive di musica come la fai tu, se riesce a trovare la tua dimensione, ti inserisci in un giro di gente che ti prende serate, lavorando con un cachet dignitoso, puoi vivere benissimo con sette e otto serate al mese. Poi un musicista ha anche altre possibilità, come insegnare e trasmettere questo valore.

Hai qualche altro genere musicale che prediligi?

Come si fa a non amare anche Steve Wonder, per esempio? O Marvin Gaye o Donny Hathaway? Sono artistiwalter ricci prevalentemente di musica soul ma tu li ascolti ed è come se fosse jazz, perché c’è una spiritualità forte. Questo lo capisci subito, dal momento in cui suonano due note, capisci subito che c’è qualcosa che va al di là del momento meccanico. Per chi riesce ad elevare il proprio aspetto musicale verso dei fronti che non siano commerciali, lo capisce subito di cosa si tratta. Io sostengo spesso che dei grandi musicisti, i capo-stipiti vivevano proprio in un’altra dimensione, stavano oltre, perché il loro spirito stava elevata perché non vivevano le cose come le viviamo. Vale anche per gli scrittori, per i pittori. Come me lo spiego? O sono marziani oppure, cosa più plausibile, è che abbiano lavorato sulla loro spiritualità, e hanno imparato ad esprimersi in un modo diverso, speciale.

Una canzone particolarmente significativa per te?

Non c’è una canzone in particolare, dipende dai momenti, dal periodo magari. Nel senso che a volte mi da qualcosa di più un pezzo e la volta successiva canti lo stesso pezzo ed è totalmente diverso.

Perché hai scelto di fare un songbook su Cole Porter?

SONY DSCE’ un idea che nasce tra me e Daniele Scannapieco. Sono onorato di essere amico di questo grande artista, che è un sassofonista spaziale. Quando me lo ha proposto, ci ho pensato un poco, meditando per capire quali pezzi suonare, in che modo. Quale ispirazione trarre per dare un suono al nostro disco? Facendo delle cene, in cui ascoltavamo vari dischi, ci colpì particolarmente quello di  John Coltrane e Johnny Hartman, un disco molto bello. Probabilmente Coltrane ha suonato solo con un cantante, che è Johnny, che aveva un modo di cantare molto old, perchè era come un baritono, cantava molto basso. Non facevamo altro che ripetere quanto fosse bello il sound del disco, fino a che decidemmo di portare la musica di Cole Porter nella direzione di quell’album. Così è nato quel disco, che ha un suono un po’ dark, cosa assolutamente voluta da me e Daniele. Anche il fatto che ci siano molte ballad è voluto: anche con un brano up avremmo potuto avere quel tipo di effetto che cercavamo, ma quel calore che volevamo dare al disco, cui a lungo abbiamo meditato, forse si sarebbe perso. Quando abbiamo fatto la prima traccia, l’abbiamo ascoltata tre ore per capire se era quello il senso del disco o dovevamo cambiare carte in tavola. Perché Cole Porter? Perché è stato uno dei più grandi autori contemporanei, e anche perché era una passione che avevamo insieme. Non è avvenuta di getto la scelta, soprattutto io ho dovuto pensarci un po’, lui probabilmente aveva già idea di che direzione intraprendere. E’ stata una bella esperienza quella con Daniele perché condividere idee con un grande sassofonista come lui arricchisce molto il tuo bagagliaio!

Che puoi dirci dei tuoi prossimi progetti?

Sto per mettere su un bel progetto, formato da un trio nuovo, con il quale tra poco, probabilmente tra maggio, giugno, luglio, registreremo il mio primo album, in cui suoneremo una serie di standard, e anche una canzone napoletana completamente riarrangiata. Il trio sarà formato da Domenico Sanna, che è un pianista, a mio parere, mondiale, Daniele Sorrentino, un grande contrabbassista, e Elio Coppola che è il mio usuale batterista. Anche se in fase embrionale, ci stiamo già lavorando a livello di idee e arrangiamenti: è arrivato il momento del mio primo album perché ho trovato una dimensione ed è per me una gioia documentarla.

Prossimi appuntamenti?

Potete trovarmi tutti i mercoledì al Mi Svago a Casoria dove i miei amici ed io mettiamo su delle belle jam session.

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