Buona, non eccelsa, la messa in scena de “Il Mercante di Venezia” al Teatro Bellini ad opera della Popular Shakespeare Kompany, giovane ma navigata compagnia teatrale fondata nel 2012 dal regista Valerio Binasco, che si propone ogni anno di mettere in scena un’opera shakespeariana con l’intento di educare il pubblico ai grandi classici, senza però rinunciare alla modernità e al rinnovamento.
Puntare sul glorioso passato letterario per comprendere il presente con formule nuove ed innovative: un piano ambizioso messo già a punto dai modernisti tra le due guerre mondiali, i quali avevano compreso che in un momento di crisi (oggi non solo dei valori, ma anche e soprattutto economica) bisogna ripartire da ciò che l’umanità ha prodotto di più bello (un po’ il senso del “Ricomincio da tre” del grande Massimo Troisi).
“Il Mercante di Venezia” è una delle opere più conosciute e apprezzate di Shakespeare, anche grazie alla versione cinematografica di successo di Michael Radford: un testo che si distingue – come del resto quasi tutte le opere di Shakespeare – per la sua straordinaria attualità, che lo rende amaramente specchio della società contemporanea.
L’ossessione per i soldi, indagata in ogni suo aspetto: dall’arrivismo sociale all’usura, dallo sperperamento scriteriato alla sua assunzione a valore universale. Ma non solo: anche intolleranza religiosa e razzismo, etica e giustizia vilmente asserviti al Dio Denaro. In quest’opera “tutto si compra e si vende, anche un brandello di carne umana, anche l’amore“.
Come in tutte le opere shakespeariane il bene e il male, pur apparentemente divisi con chiarezza nel plot, finiscono per confondersi ed assottigliarsi (e qui risiede la genialità del drammaturgo inglese, capace di mimetizzare perfettamente le sue provocazioni morali nel pensiero comune del suo tempo). Se da un lato la condotta di Shylock è indubbiamente deplorevole, è giusto trattarlo con disprezzo e disgusto perché è ebreo/straniero? Dove finisce il pregiudizio e dove inizia la giusta condanna? Lo spettatore si ritrova ad interrogarsi e a dubitare persino della buona fede dei protagonisti durante il meraviglioso quanto noto monologo di Shylock in cui cerca di giustificare la sua sete di vendetta nei confronti di Antonio. E nella messa in scena di Binasco lo scellerato e inestirpabile cinismo dell’usuraio ebreo è sostituito da una più gentile sympatheia nei confronti del personaggio, più in pena, più avvilito, tanto da indurre in chi guarda un moto seppure breve e superficiale di compassione.
Il regista stesso ha ammesso in una sua dichiarazione: “L’essenziale, riguardo a Shylock non è che un eretico o un ebreo, ma che è un outsider. La terribile, umiliante, meschina sconfitta di Shylock mi mette a disagio. Annuncio fin d’ora che starò dalla sua parte”.
Una lettura dell’originale sicuramente coraggiosa e fuori dagli schemi, che ho molto apprezzato insieme alle scenografie e ai costumi essenziali, che permettono al pubblico di concentrarsi unicamente sull’universo interiore dei personaggi. Apprezzabile l’interpretazione dei personaggi: Silvio Orlando nei panni di Shylock è bravo anche se non totalmente convincente, notevole la performance di Sergio Romano come Lancillotto, bravissima Milvia Marigliano nei panni della nutrice di Porzia, interpretata da Elisabetta Mandalari in una versione ibrida tra Barbie e Paris Hilton.
“Ancora una volta Shakespeare riesce a scavalcare il limite temporale e a fornirci materia per riflettere su di noi e sul nostro presente. Tra Venezia e Belmonte c’è un universo contrastante, una società ritratta a tinte forti che nel tempo non hanno perso smalto. Siamo indietro di 400 anni, sembra di essere domani”.