La cerimonia degli Oscar si avvicina: il 28 febbraio 2016 l’Academy premierà gli “addetti ai lavori” del mondo del cinema con la statuetta più ambita. Come ormai da dieci anni a questa parte, quando tra i migliori attori c’è Leonardo Di Caprio, la domanda è una sola ed è sulle bocche di tutti: ce la farà quest’anno il nostro Leo? Riuscirà a non farsi scippar via l’Oscar dall’ennesima rivelazione dell’anno, dal ruolo più anticonvenzionale di un rivale (leggasi tipica interpretazione paraculo amata dall’Academy) o dalla sfiga che chiaramente lo perseguita?
Lo dico subito, a scanso di equivoci: Di Caprio stavolta l’Oscar deve vincerlo.
Per innumerevoli motivi.
La sua interpretazione magistrale in Revenant di Alejandro González Iñárritu sarebbe bastata per gran parte degli attori di Hollywood, premiati con l’agognata statuetta per molto meno.
Ma Di Caprio ha anche alle spalle una carriera che credo sia ormai lecito definire eccezionale, con film sempre azzeccati, interpretazioni più che convincenti (spesso magistrali) e la capacità di non cadere mai nella facile tentazione di arruffianarsi l’Academy con ruoli da macchietta, trasformazioni fisiche sconcertanti o personaggi dalla caratterizzazione estrema.
Intendiamoci, c’è stato un Di Caprio migliore di questo. Leo è penalizzato da sempre da un viso estremamente regolare, poco incisivo almeno per quanto riguarda i tratti somatici e da una sobrietà nel modulare la mimica facciale che gli hanno conferito versatilità e una fama duratura, ma non primi piani memorabili. Ciò che lo ha reso il grande attore che è è la sua capacità nei dialoghi, i botta e risposta brillanti che lo hanno reso un orribile psicopatico in Django, un marito tormentato e afflitto dai sensi di colpa in Inception, uno schizofrenico che vuole dimenticare in Shutter Island, un avvocato del diavolo in The Wolf of Wall Street e un gigantesco, epico, indimenticabile Gatsby. Ecco, in queste occasioni Di Caprio è stato letteralmente derubato dell’Oscar. Ma vincerà, strappandolo ad altri pur eccezionali, stavolta, perché è riuscito a eccellere proprio lì dove non è mai stato eccellente, in un film in cui è in pratica muto per quasi tre ore, confermandosi una delle divinità dell’Olimpo di Hollywood.
Fine.
Una trama scarna, senza grandi colpi di scena, giocata tutta solo ed esclusivamente sulla tensione omicida di Glass e sulla lotta per la sopravvivenza del protagonista, dell’antagonista, ma anche di tutti i compagni. Non sono gli uomini ad essere al centro della vicenda, ma la Natura. Non è l’anima, ma il corpo, inteso come ammasso di carne, organi, sangue (moltissimo sangue!) e urgenze fisiche a dominare la scena e la mente del pubblico. Lo sguardo del regista è freddo, crudele, eppure permette allo spettatore di entrare completamente nella vicenda. Complice una fotografia spettacolare (perché limitarsi a dire che è bella o buona è davvero da scemi, vi assicuro), di Emmanuel Lubezki, finiamo per essere tutti lì, in mezzo alla neve, trascinati nel fango, sul dorso di un cavallo, nei corpi scempiati, nella bocca di Di Caprio che addenta sporco di bava, neve e sangue un pezzo di carne cruda strappata dalla carcassa di un bisonte o un pesce ancora guizzante nelle sue mani. La cinepresa non è semplicemente fluida, è praticamente ovunque, i colori sono tanto naturali da apparire a tratti opprimenti, la luce, per volere di Iñárritu, è sempre e solo quella naturale. Fare cinema è anche questo: colpire l’occhio, corteggiare la vista, innescare il meccanismo di sospensione dell’incredulità attraverso le immagini.
Si è parlato di personaggi freddi, monotematici, senza spessore, con cui è impossibile entrare in sintonia. Forse è così, ma perché dovrebbe essere un male?
Iñárritu non sta raccontando una storia umana, ma una storia naturale.
L’epicità è tutta nell’orso e nei suoi movimenti, nelle meravigliose cascate, nella neve crudele che uccide, nel fuoco benevolo che riscalda e riporta alla vita, nel sangue e nella carne che significano morte ma anche sopravvivenza, nelle leggi bestiali che controllano il mondo e anche gli esseri umani.
Lontanissimo dalle nevrosi moderne di Birdman, film che pure ho adorato, Revenant sceglie di mostrare il percorso di due uomini che di umano non hanno nulla. Entrambi lottano per sopravvivere, entrambi sono bestie, uno (Fitzgerald) perché dominato dall’egoismo sin dall’inizio della storia, l’altro (Glass) perché ha perso tutto e l’unica cosa che resta è percorrere la strada del progressivo imbarbarimento.
A cosa è servita allora questa sete di sangue?
A permettergli di essere un Redivivo; non ha avuto paura di morire, perché è già morto e il pensiero costante di Fitzgerald ha avuto un unico scopo: continuare a vivere, sopravvivere, respirare. Senza più un’anima, non importa. Finché il corpo si trascina in avanti e il cuore batte ancora ne vale la pena.