Vorrei vivere in un film di Wes Anderson

Mai sentito parlare di un rara malattia che induce a credere che la vita segua le linee delle sceneggiature del regista Wes Anderson?

Io non lo so se I Cani siano stati i primi a diagnosticare la Sindrome WA (nota anche come Disturbo di Wes Anderson) o fosse un fenomeno già in espansione, ma quando la loro canzone me l’ha fatta conoscere era ormai troppo tardi: il morbo aveva già colpito anche me.

Apparentemente si insinua come una patologia virale che contagia durante la visione di un suo film, eppure ho appurato che in molti ne sono immuni. Ricordo perfettamente che quando ho avuto la prima esposizione diretta con il presunto vettore (The Royal Tenenbaums, 2001) eravamo in cinque nel mio salotto, ma solo io e una mia amica abbiamo cominciato a manifestarne i sintomi, tra l’altro molto differenti. Per lei, pelliccia di visone Fendi, molletta rossa nei capelli, mascara sfatto erano divenuti look d’obbligo quando non era occupata in interminabili immersioni nella vasca da bagno: praticamente aveva iniziato a vestirsi e comportarsi esattamente come Margot Tenenbaum (e poco ci mancava che non si amputasse l’anulare!).

Io invece sviluppai solo una smodata dipendenza dalla filmografia del regista texano. Poi, nel 2012, dopo aver visto al cinema Moonrise Kingdom, la sindrome si è manifestata in pieno: mi sentivo, anzi ero, anzi sono, Sam Shakusky e, bussola alla mano, cominciavo a preparare la mia fuga (d’amore, dalla realtà, dalla noia). E non mi sono ripreso più.

Ecco cosa sono i film di Wes Anderson: il fattore scatenante di una malattia latente che affligge mediamente due persone su cinque.

Se ne siete inconsapevolmente affetti, potreste ritrovare a sentirvi come il vendicativo e incompreso drammaturgo Max Fisher di Rushmore (1998), uno tra i tre malinconici e snob fratelli Whitman in attesa di un surreale viaggio di formazione sul Darjeeling Limited (2007), o uno dei tanti assurdi personaggi interpretati dall’attore feticcio Bill Murray (memorabile il ruolo da protagonista in The Life Aquatic with Steve Zissou del 2004). E, diciamocelo, chi non vorrebbe essere almeno per un giorno Bill Acchiappafantasmi Murray?

Se ne siete immuni, invece, probabilmente le trame eccentriche quanto i suoi personaggi vi coinvolgeranno poco e forse trasmetteranno ancor meno. Anche la critica, inizialmente unanime nell’apprezzare il suo lavoro, oggi si divide tra estimatori convinti e detrattori che sostengono che il regista si sia fossilizzato in un esercizio di stile ridondante e autoreferenziale. In effetti da Bottle Rocket (1996) a Moonrise Kingdom (2012), che io considero il manifesto della sua filmografia, lo stile del regista è andato sempre più serrandosi in dei canoni specifici. I colori pastello, le tinte sgargianti, la maniacale costruzione delle scenografie (sottomarini, treni, abitazioni sono costruiti come delle vere e proprie case di bambola), le colonne sonore che corredano perfettamente l’epoca in cui sono ambientate le storie, la simmetria nelle inquadrature e il frequente ricorso ai piani sequenza sono aspetti che rendono i suoi film riconoscibili a prima vista. Aggiungeteci un utilizzo sapiente di citazioni – da Trauffaut a Scorsese – spesso additato come mero manierismo, ma che io considero l’applicazione di una sintassi che, utilizzando la storia del cinema, produce nuove combinazioni linguistiche nella forma quanto nei contenuti. Per una forma che è al servizio dei contenuti. Perché dietro la patina di colori e i costumi vintage, le sue storie sono sempre percorsi in cui i personaggi provano a superare conflitti, interiori, familiari, sociali e alla fine delle loro pindariche vicende hanno fatto un passo in avanti, per quanto piccolo sia. Ogni suo film scatenerà pure la socialmente poco accettabile sindrome WA, ma sono anche una cura per lo spirito. Un’epifania dai toni leggeri e duri, teneri e aspri, irrealistici ma veri.

Attraverso le vicende di outsider sgangherati Anderson riesce a mettere in scena quella tragicommedia che è la vita umana. Adulti che si comportano come adolescenti, adolescenti che si comportano come disincantati bambini, bambini più risoluti e pratici degli adulti: i confini delle tappe della crescita nei personaggi andersoniani sono labili e confusi, così come lo sono per l’inconscio dello spettatore. Ed è ad esso che i suoi film parlano: mentre l’occhio gode, l’anima si rigenera tra uno scossone e una carezza, guidata dal filtro dello sguardo garbato di un regista poeta.

A tutti i disadattati, i membri di famiglie disfunzionali, i malinconici senza rimedio, che non sono ancora incappati in un film di Anderson e che vogliono mantenere una parvenza di sanità mentale, sconsiglio vivamente la visione di un suo lungometraggio (ma anche di quelle preziose miniature che sono i suoi corti, in particolar modo Hotel Chavalier). A tutti gli irrimediabili che ormai non ne possono fare a meno, invece, do appuntamentoper smarrirci insieme a Jude Law ed Ralph Fiennes tra i variopinti corridoi del Grand Budapest Hotel (2014), pellicola che ha vinto ben quattro premi oscar .

Angelo Capasso: In perenne bilico tra editoria e psicoterapia, tra semiologia e semantica, tra bulimie sentimentali e curiosità infantile, inseguo indiscriminatamente verità, sogni e immaginazione (qualora ci fosse davvero una differenza)! Mi interessano le persone, le loro storie, le parole in cui sono racchiuse.

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