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ANTONIO FIRMANI, musicista

by i-Cult

Per noi, prima di essere un bravo musicista, Antonio Firmani è innanzitutto un amico. Quando ci siamo persi tra i vicoletti presepiali di Aversa, non ci ha pensato due volte a lasciare a metà una pizza e venirci a recuperare per scortarci fino al suo appartamento.

L’arredamento della sua stanza è il perfetto specchio della sua personalità: spartana ma delicata, per lo più riempita da strumenti libri e cd, l’unico elemento di colore sono le cartoline sulle pareti e le poltrone sulle quali ci accomodiamo. Qui tra una risata, un bicchiere di estathè (rigorosamente al limone) e biscotti fatti in casa, l’intervista diventa una piacevole chiacchierata che sa di intimità e passione.

Antonio ci racconti del tuo percorso partendo dagli esordi?

Ho iniziato a suonare con una band a 20 anni: i Jacob’s room, già con pezzi scritti da me. A quell’età non hai la presunzione di dire: “Io sono Antonio Firmani”.  Rispetto ad oggi non è cambiato quasi niente, forse solo dal punto di vista del sound, della parte “formale” della canzone che prima era più strumentale, più post rock, ora, invece, si sono aggiunti molti più strumenti, più cantati. Il procedimento  rimane sempre lo stesso: scrivo pezzi, li compongo, li arrangio e poi li porto sul palco.

C’è differenza tra le tue prime esibizioni e quelle di adesso?

Principalmente è che nei soundcheck sono parecchio più pignolo. Quando sei agli inizi sei il “ragazzino”, sembra già tanto che ti stanno facendo suonare. Invece quando vai con un bagaglio di esperienze, quando ti emancipi dall’amatoriale e sei più esperto nel tuo lavoro, sai cosa vuoi, sai cosa ti serve e ti puoi permettere di fare delle richieste. E’ un po’ una jungla, dove se non sei forte, ti mettono i piedi in testa. Questo capita soprattutto negli ambienti non del tutto professionali, ma a metà strada tra l’amatoriale e il professionale. Certe pretese e certe libertà artistiche te le puoi prendere da un certo punto in poi. Un’altra differenza oggettiva sono i posti in cui suono.  E’ normale, all’inizio vai a suonare anche nella bettola, poi inizi a selezionare di più, a costruirti un “giro”. Non sono ancora mai uscito dalla Campania, tranne che per un paio di date, però qui bene o male ho suonato un po’ ovunque.

C’è stato qualche evento, qualche momento più decisivo che ha dato una svolta alla tua carriera?

In realtà forse ancora devo voltare pagina. Anche se questo progetto ha un anno e mezzo e abbiamo suonato tanto – parlo di me e dei musicisti che mi accompagnano – non siamo del tutto usciti dall’amatorialità. L’EP che abbiamo realizzato ha avuto tantissime recensioni positive, ma sento l’esigenza di realizzare un disco. Sto aspettando una produzione, che è l’unica cosa che mi permetterebbe di fare un vero salto di qualità. Per esempio a settembre all’Atellana Festival ho vinto il premio della critica ed è  un riconoscimento significativo, che mi ha fatto davvero piacere, ma  non è qualcosa di grosso ancora. Se tu riesci ad avere una produzione, riesci ad entrare in altri circuiti e allora lì è tutta un’altra storia.

Hai già un’idea di come “voltare pagina”?

In Italia è difficile, sarebbe molto più facile all’estero. Infatti le copie dell’EP hanno avuto più successo fuori, perché c’è molta più fertilità. Qua il mercato è ben preciso: o c’è il talent o la musica indie, che è una tipologia più specifica. Il mio genere, l’indiepop  qua in Italia non ha mercato. Paradossalmente però nel resto del mondo va molto e tutte le band blasonate fanno queste cose. Nel frattempo la mia idea è quella di usare un po’ il web per farmi conoscere: girare un video, usare i canali social. Sono ancora un neofita nel settore però so che la comunicazione è importante. Ormai se metti un semplice player l’utente medio non lo ascolta nemmeno, mentre se realizzi un video hai più speranze che lo faccia.

Raccontaci la copertina del tuo EP!

Antonio Firmani -The 4th row cover

Artwork di Anna Maria Saviano

Questo artwork è di Anna Maria Saviano, uno dei più grandi talenti che sta qua. L’immagine non è una foto, ma totalmente realizzato con i pastelli, entra molto nei miei gusti! The Forth Row è la quarta parete, una definizione di Baricco del giovane Holden. In una puntata di “Pitchweek” dedicata al giovane Holden – una trasmissione di Rai Tre che andava negli anni novanta – Baricco parla del protagonista dicendo che è totalmente negato nelle emozioni più immediate (quelle di prima fila) mentre nelle emozioni più nascoste, celate (quelle di quarta fila) era un genio. E Anna Maria pensò a questa cosa qua: che il concetto di The Forth Row è simile a quando vai in una casa abbandonata e vai a scavare vai a scavare, e trovi un parato tolto.

Anche se sono immediatamente riconoscibili nella musica sonorità decisamente nordiche, puoi dirci cosa ti ispira e se è cambiato qualcosa rispetto al passato?

Le fonti in realtà sono sempre le stesse. Tutta la scena postrock, i Sigur Ros, Damien Rice, i cantautori come Bob Dylan e Springsteen, Explosion in the Sky, Mogway. Anche se in realtà non è così immediato come processo. Nel senso che a volte si riflettono poco i tuoi ascolti quotidiani e poi ti dicono che hai risonanze con artisti che non avresti mai pensato! Parecchio Damien Rice, devo ammetterlo, anche per questo sto lavorando molto sulla canzone, una ballad intensa. Il sound è più freddo, contrapposto da un cantato più caldo, delicato, soffuso e testi abbastanza malinconici. Anche per questo rispetto ai Jabob’s room sono aumentati i componenti della band arrivando addirittura agli 8 attuali. Anche se “con questi numeri” è più facile lavorare in studio piuttosto che come band, perché a volte salire in 7-8 sopra un palco è un po’ un problema!

La scelta della lingua inglese nasce per l’amore della lingua a cui abbini le sonorità o, viceversa, per l’amore per quelle sonorità cui poi abbini la lingua?

In realtà quelle sonorità spesso sono cantate con altre lingue: islandese, addirittura hopelandicse, o addirittura solo strumentali. Comunque la risposta è davvero semplice. È per la facilità con cui ti puoi esprimere con la lingua inglese, ha una musicalità intrinseca, è molto più immediato per la musica, riesci a comunicare molto di più, molti concetti li puoi dire in un modo più “adatto”, basta pensare ai phrasal verbs. Per me l’inglese è la lingua musicale per eccellenza. Con l’italiano, la musica è troppo influenzata dalla metrica, non puoi fare a meno di risultare pesante o smielato.

Qualche progetto futuro?

Quest’estate staremo fermi, abbiamo anche annullato qualche festival perché ci sono stati dei cambiamenti nelle lineup. Il chitarrista va via perché parte per gli Stati Uniti e oltre a cambiare la chitarra, abbiamo aggiunto i violini. Ci dobbiamo chiudere in sala prove per usare anche un po’ il web, registrare performance live, fare un video serio con un regista.

Fotografie di Gigi Reccia

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