La Pixar ha sfornato un altro gioiello. Inside Out ha incantato Cannes, sta spopolando nelle sale cinematografiche di tutto il mondo e la squadra di emozioni composta da Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura è già diventata iconica.
L’idea alla base del film è geniale: esplorare la mente e la personalità di una bambina e mostrare come l’interagire delle emozioni tra loro ne può modificare le esperienze e il ricordo che si avrà di esse. Senza inoltrarsi in speculazioni troppo complesse sulla mente, i creatori di Inside Out hanno costruito un mirabolante mondo colorato e ultramoderno per descrivere il nostro cervello: dal comando centrale, una specie di torretta di controllo, le emozioni (l’inside) controllano la vita di Riley (l’outside) e la influenzano semplicemente premendo un bottone che ricorda quello dei quiz, che i concorrenti fanno a gara per pigiare per primi. Una volta “premuto il pulsante” Riley avrà una reazione e verrà creato un ricordo, una grossa biglia, del colore corrispondente all’emozione prevalente: i ricordi andranno ad impilarsi per poi essere trasportati verso quel grosso “magazzino” che è la memoria a lungo termine. Non tutti, però: i cosiddetti ricordi-base vengono custoditi in un cilindro speciale e danno vita alle isole della personalità, che rappresentano ciò che è più caro ad ognuno di noi e che di conseguenza definisce il nostro “carattere”.
Già questo basterebbe per esaltare una delle idee più fresche e originali degli ultimi anni su celluloide. Ma alla Pixar non si fermano qui. C’è proprio di tutto: al di fuori della torre di controllo, dove finiranno Gioia e Tristezza, un enorme labirinto in cui i ricordi si ammassano e si “perdono”, eliminati dagli “spazzini cerebrali” che decidono cosa è utile e cosa no; un buffo elefante rosa quasi dimenticato, amico immaginario di Riley; un set cinematografico per i sogni (!) in cui si rielaborano ricordi, paure, desideri, sotto la guida di registi, fonici, sceneggiatori; il treno dei pensieri, che attraversa il cervello fermandosi a varie stazioni per raggiungere la cabina di controllo e ripartire; le “isole” della famiglia, dell’amicizia, dello sport e della “stupidella”, la parte più allegra e sciocca di ognuno di noi; la stanza del pensiero astratto, dove le emozioni si deformano, vengono de-costruite e frammentate; e, signore e signori, persino l’antro oscuro dell’inconscio, tenuto chiuso a chiave e popolato di mostri, irrazionalità, immagini distorte, clown inquietanti che vi hanno spaventati da bambini, che possono sfuggire ai custodi e riversarsi nei sogni, trasformandoli in incubi.
Se non bastasse nemmeno tutto questo, ad Inside Out si ride. Si ride tanto, grazie alle emozioni di Mamma e Papà, alle insicurezze di Paura, alle adorabili fobie di Disgusto (broccoli, uuugh!) e soprattutto all’esplosività di Rabbia che si lancia sulle leve di controllo senza ascoltare gli altri.
Ma, soprattutto, ad Inside Out ci si commuove.
Ecco, ci sono arrivata. Inside Out è un capolavoro perché rivaluta la tristezza.
In un mondo in cui bisogna sempre essere vincenti, forti, brillanti, simpatici, allegri, efficienti, la tristezza è un’emozione “schifata”, qualcosa di cui vergognarsi, che ci rallenta, che ci fa stare stesi a terra invece di correre veloci verso il prossimo obiettivo. Gioia avrà bisogno di vivere una serie di avventure e disavventure per capire l’importanza di Tristezza: senza di lei non ci sarebbero la riflessione e lo studio, non si saprebbe dove andare. Ma, soprattutto, senza Tristezza non c’è Gioia: in ogni ricordo contrassegnato dal giallo c’è sempre una macchia di azzurro.
Inside Out insegna – e lo fa con un candore e una leggerezza che solo i capolavori, appunto, hanno – che perché un essere umano sia davvero completo ha bisogno di tutte le emozioni, anche quelle negative, anche quelle da “perdenti”. Per diventare campioni di hockey c’è bisogno di cocenti sconfitte, di delusioni che ti buttano a terra, di imprevisti che ti fanno arrabbiare, di situazioni che ti spaventano o disgustano e ti fanno piangere.