16 luglio 2014, una data che difficilmente dimenticherà chi si è recato alle basiliche paleocristiane di Cimitile per assistere alla performance di Kenny Garrett. Uno spettacolo esclusivo ad alto contenuto di spettacolarità. Ore 21 e 09 inizia il concerto, Kenny sale sul palco col suo inconfondibile copricapo simile ad una shashia algerina e salta ogni tipo di convenevole: niente formalità, nessuna presentazione, è subito jazz. Bastano poche note e in brevissimo tutte le sedie vengono occupate, comprese quelle degli spettatori più distratti che non si sono accorti dell’ingresso in scena del quintetto. Fin da subito sembrano tutti affascinati ed attirati in maniera magnetica dal sound di Mr Garrett. La partenza è di quelle che ti tolgono il fiato con pezzi tratti dall’ultimo album, Pushing the world away, eseguiti con grande stile.
Ad accompagnare Garrett sul palco, ci sono dei musicisti stratosferici in quanto a tecnica ed intensità: al contrabbasso Corcoran Holt, al piano Vernell Brown, McClenty Hunter on drums e alle percussioni l’ultimo arrivato Rudy Bird che catalizza su di sè la simpatia di tutto il pubblico con le sue movenze alla Bill Cosby. Subito dopo l’apertura, l’artista fa un piccolo passo indietro nel tempo, eseguendo J. Mac tratta dal precedente album Seeds from the underground per poi rituffarsi di nuovo nell’ultimo album che gli è valso anche una nomination ai Grammy nella categoria “best jazz instrumental album“.
Tra i musicisti c’è un feeling ben collaudato, gli strumenti si incastrano a perfezione durante le lunghe sessioni d’improvvisazione, entrano ed escono con naturalezza, dalla corrente melodica, ma è la pulizia del suono a farla da padrona, si riesce a cogliere anche la più piccola sfumatura tonale e nel complesso ne viene fuori un groove dal sapore bebop. C’è un’alternanza continua fra i richiami classici ed una vena giovane, più spumeggiante, più briosa, libera dalla coltre di intelletualità rivoluzionaria di cui s’era fatto carico il movimento bop negli anni del boom: è un suono nuovo. Ma Garrett non è grandioso solo da ascoltare, bensì anche da vedere: è in piena sintonia con lo strumento, fanno coppia. Durante tutta la serata si ha l’impressione di vederli stringersi in un abbraccio appassionato, la gestualità è chiara, non lascia spazio all’immaginazione: ama lo strumento come fosse parte del proprio corpo: lo seduce, ne è estasiato ma non ne perde mai il controllo. Il maestro è ordinato, composto, accademico nei suoi movimenti, ma sembra scalpitare man mano che la serata va avanti, sembra una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Si ha il sentore che la compostezza, che caratterizza la prima parte della serata, possa essere solo il preludio di un qualcosa che sta per avvenire. Durante tutta la fase centrale della performance, c’è spazio per gli assoli dei singoli strumentisti a cui il sassofonista di Detroit lascia la scena mentre si alterna fra l’altosassofono e il sassofono soprano. Verso le 22 e 30, una richiesta precisa, rompe gli equilibri: are you happy?
A quel punto Garrett si toglie la maschera da accademico che forse gli andava anche stretta data la sua personalità dinamica ed energica e si lascia andare rompendo gli schemi. Dopo aver ripetutamente chiesto al pubblico un po’ di casino ( “make some noise”) e, sollecitando la richiesta con continui “c’mon”, invita le persone a portarsi a ridosso del palco. L’impressione che si avvertiva nell’aria, adesso è diventata realtà: la bomba è esplosa. Il groove diventa sempre più incalzante, sempre più funky jazz, la scena cambia ed ecco che in pochi minuti, si ha un andirivieni di persone su e giù dal palco, è Garrett stesso a prelevarli e portarli su. “ Let’s dance” è quello che Garrett chiede continuamente a volte anche in maniera severa. Ha voglia di uscire dagli schemi, apportando una rivoluzione nel modo di eseguire jazz, vuole svelare la natura semplice di questo stile, rendendolo fruibile alla massa e ci riesce senza troppe difficoltà. Sembra voglia dimostrare ad un pubblico affascinato, ma fino a quel punto forse poco coinvolto, che è superato il tempo del jazz esclusivo, ora il jazz parla una lingua universale, facilmente comprensibile, appartiene a tutti. Tale mossa, viene subito apprezzata, data la celere risposta degli spettatori. Le pareti delle basiliche illuminate da fasci di luce colorata, diventano ora più che mai la prova tangibile del vecchio che incontra il nuovo.
Sulle note di Happy People, tratta dall’omonimo album del 2002, eseguita in maniera magistrale e dilatata all’ennesima potenza, le lancette scorrono fino alle 23, ora in cui cala il sipario. Garrett si prende gli applausi prima di lasciare il palco. è visibilmente appagato e felice: è consapevole di aver regalato al pubblico di Cimitile una grandissima performance. Subito dopo i titoli di coda, si avverte un’aria euforica e soddisfatta di chi ha appena assistito ad uno spettacolo irripetibile e che proprio per questo, cela una velata malinconia.
Non ci resta che sperare di aver fatto breccia nel cuore del maestro di Detroit, facendogli venir voglia di tornare ancora da queste parti.
Loading…