Nel luglio 2008 l’edicola dove sono solito rifornirmi fu palco di una esilarante gag con protagonista mio padre che accusava il giornalaio di volerlo fregare perché provava a vendergli un strano fumetto di nome Spiderman: dov’era finito L’Uomo Ragno che da anni comprava ogni due domeniche? Tornato a casa rassegnato, dovetti spiegargli che l’editore aveva ritenuto che i tempi fossero maturi per questo cambiamento: secondo Marco Marcello Lupoi mantenere la tradizione del titolo tradotto in italiano era ormai inutile e desueto visto che in film, videogames e cartoons da tempo si usava solo il nome originale.
Quello di Spiderman è solo uno degli ultimi casi di come il mondo della traduzione si sia adattato ai tempi e al contesto di riferimento in cui si propone l’opera tradotta. Ma nell’Italia degli anni Settanta, l’Editoriale Corno non solo aveva necessità di tradurre Spiderman in Uomo Ragno o The Fantastic Four in I Fantastici Quattro per avvicinare un pubblico completamente a digiuno d’inglese, ma spesso sentiva l’esigenza di semplificare i nomi per renderli più accattivanti e comprensibili: Daredevil, termine inglese che sta a significare temerario e allo stesso tempo contiene la parola diavolo, fu reso in Devil, forma più abbreviata che dava peso esclusivamente al suo costume, visto che il richiamo alla temerarietà non poteva essere tradotto con nessun gioco di parole. Per Moon Knight si preferì non tradurlo in Cavaliere della Luna, ma adottare Lunar, nome inventato di sana pianta. Diverso il caso degli X-men: se per i membri fondatori i nomi Cyclops, Beast e Iceman rendevano perfettamente l’idea con una semplice traduzione letterale in Ciclope, Bestia e Uomo Ghiaccio, diverso era il discorso per la seconda genesi. Nightcrawler e Wolverine suonavano decisamente molto ridicoli e poco eroici se tradotti in Lombrico e Ghiottone, per cui la Marvel Italia cercò di correre ben presto ai ripari dal letteralismo della Corno, optando per i nomi in originale. Oggi non ci si pensa due volte a lasciare invariato il nome Avengers per le varie testate in modo da uniformare tutti i prodotti collegati a questi eroi sotto un unico brand, ma nel 1996 una testata con quel nome al posto de I Vendicatori, quanto avrebbe potuto vendere in edicola?
Guardando altre case editrici e tempi ancora più remoti, possiamo scoprire rimaneggiamenti e scelte anche più eclatanti! Prendiamo ad esempio il personaggio bandiera di casa DC: il settantacinquenne Superman arrivò in Italia nel 1939 sugli Albi dell’Audacia con il nome di Ciclone, cambiato poi in L’Uomo Fenomeno, poi ancora in L’Uomo D’Acciaio, finché per ben dieci anni rimase in pianta stabile sugli Albi del Falco col nome di Nembo Kid, implicando non solo un lavoro di traduzione, ma anche di grafica visto che in copertine e vignette bisognava far sparire la S di Superman dal petto e dal mantello. Ma nell’Italia di quegli anni anche altri personaggi videro i loro nomi rimaneggiati, anche se soprattutto a causa di influenze di ordine politico più che per problemi di natura puramente traduttiva. Durante la dominazione fascista, infatti, per cercare di eludere le direttive del MinCulPop (il famigerato Ministero della Cultura Popolare che si occupava di “controllare” la cultura e di organizzare la propaganda), alcuni editori provarono ad assecondare ed aggirare la censura italianizzando nomi (e spesso anche contenuti) dei personaggi di cui pubblicavano le avventure. Così Mandrake divenne Mandrache, Brick Bradford diventò Guido Ventura, Phantom e la sua fidanzata Diana Palmer erano proposti come L’Uomo Mascherato e Diana Palmesi. Ma in fin dei conti, anche se su L’Avventuroso si pubblicavano la guerra tra Gordon Flasce e dottor Zarro (anziché quella tra Flash Gordon contro il dottor Zarkov), un personaggio così biondo e americano non sarebbe mai potuto essere accettato dalla censura. Solo Mickey Mouse, Donald Duck e tutta la famiglia Disney incontrarono il beneplacito di casa Mussolini, almeno fino allo scoppio della Grande Guerra. Ma per loro comunque scelto di rinunciare al nome proprio per appellativi animaleschi come Topolino, Paperino e Zio Paperone.
“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo” Quello che diceva Shakespeare per bocca di Giulietta è sicuramento vero per tanti oggetti del mondo reale. Spostandoci però nel mondo della fiction, anche i nomi acquistano un loro ruolo e un loro peso: siccome spesso nei nomi sono racchiusi attributi fisici o caratteristiche culturali, geografiche o storiche, oppure costituiscono veri e propri giochi di parole, allora la traduzione dei nomi dei personaggi diviene una sfida semantica per il traduttore, che ha a sua disposizione un vero e proprio decalogo di regole, ma solo delle linee guida: c’è la tecnica della riproduzione per cui i nomi rimangono invariati (Spiderman), l’adattamento culturale (Devil) e l’omissione (Hulk), per cui, non avendo il nome alcun significato nella lingua di origine, il traduttore decide di non tradurli. C’è poi trascrizione o la traslitterazione da un alfabeto diverso da quello latino, come spesso avviene nel caso dei manga (e molto meno negli anime: basti pensare che Seiya, Shiryu, Hyoga, Shun e Ikki diventano Pegasus, Sirio, Crystal, Andromeda e Phoenix). Esempio interessante in Saint Seiya è l’adattamento del termine utilizzare per indicare i guerrieri di Atena: il termine originale è il rubi degli ideogrammi della parola giapponese Seitoshi, che significa Sacro Guerriero. Eccezion fatta per la Granata Press, In Italia si è optato per la parola cavaliere al posto di Sacro Guerriero, in quanto nell’immaginario collettivo è un vocabolo associato all’immagine di uomini in armatura che combattono per un ideale (come i cavalieri della Tavola Rotonda).
Se solo tradurre un nome di un personaggio di un fumetto necessita di tutte queste accortenze, immaginate cosa sia la traduzione di un intero albo. Considerando che è composto da immagini e da testo, un fumetto non è qualcosa che va soltanto letto, ma anche visto: ha un linguaggio specifico in cui codice verbale e illustrativo si fondono, simboli e icone diventano un tutt’uno. Inoltre siccome le componenti grafiche non possono essere manipolate, a differenza del testo scritto, restano tracce del contesto culturale e, attraverso le onomatopee, anche di quello linguistico.