Home AuthorCinzia Cicatelli Arancia Meccanica di Gabriele Russo al Teatro Bellini

Arancia Meccanica di Gabriele Russo al Teatro Bellini

di Cinzia Cicatelli

Arancia Meccanica è un cult. Un intoccabile del nostro retaggio culturale. Semplicemente è perfetto così: nel suo essere romanzo sublimato in capolavoro intramontabile dalla visionaria maestria di Stanley Kubrick.

Dopo il rilascio del film nel 1971, i drughi si sono impiantati nella nostra mente con volti unici ed insostituibili – come “l’angelico Alex”, con la trionfale nona di Beethoven e dei costumi così iconici che non lascia spazio a interpretazioni diverse da “è un drugo”.

Insomma una non-facile impresa trasportare a teatro Arancia Meccanica: siamo così affezionati a quello che per noi è l’indiscusso originale che tendiamo a dimenticarci che il teatro è un mondo con esigenze, tempi e linguaggi differenti e corriamo il rischio di voler vedere riprodotto fedelmente il film, perché non vorremmo mai allontanarci dalla sua confortante perfezione.

L’opera di Gabriele Russo, a cui ho assistito ieri al Teatro Bellini di Napoli, invece mi ha positivamente sorpreso. Scavalca ogni pregiudizio dello spettatore, elude l’astio involontario contro chi ha “l’arroganza” di voler rappresentare questo capolavoro e finisce per rapirti, per convincerti, per darti la netta sensazione che seppur la forma cambia, l’essenza resta esattamente fedele al libro di Burgess e al film di Kubrick.

Stessa inquietudine, stesso disgusto per la vana violenza, stessa inestirpabile e inammissibile simpatia per il protagonista, il piccolo Alex, che nel profondo riusciamo a condannare ma mai ad odiare veramente.arancia-meccanica-napoli

Le scenografie di Roberto Crea – esaltate dalle musiche di Morgan (non poteva esserci miglior compositore per questo spettacolo) –  sono poi il fiore all’occhiello dello spettacolo: futuristiche e alienanti, non stonano ma si compenetrano perfettamente alla narrazione.

Mi è molto piaciuta la scena dello stupro al rallenty: un acquario di violenza dove la scenografia suggerisce che “il mondo è finito sottosopra”, come alludono i mobili completamente ribaltati. Una scatola dell’orrore che riesce ad esprimere contemporaneamente  l’assoluta atrocità del momento e “l’estetica della violenza”.

Scusate le tante virgolettature, non voglio assolutamente che fraintendiate: l’apologia dell’estetica della violenza, ereditata dal film, è assolutamente esecrabile, ma è parte essenziale della figura dei drughi, senza la quale tutta la storia verrebbe ridotta a mera cronaca e non ad opera d’arte.

Altra nota positiva è la scelta dei costumi: gli abiti eleganti indossati dai protagonisti sono una scelta metaforica molto azzeccata. Chiara Aversano prende le distanze dall’iconico travestimento del film di Kubrick, ma rimarca il fatto che quel tipo di violenza non è perpetrato da delinquenti qualsiasi, da uomini (o meglio ragazzini) di strada, ma sono atti figli di una borghesia inconsapevole e annoiata. Sono ragazzi di oggi, plagiati (ma nemmeno più di tanto) dalle droghe e dall’assoluta “banalità del male”.

arancia_meccanica_foto_francesco_squeglia_9010_copiaArriviamo quindi al cast, davvero encomiabile. Durante la rappresentazione mi domandavo cosa sarebbe cambiato se, invece dei bravissimi  Daniele Russo, Sebastiano Gavasso e Alessio Piazza, ci fossero stati tre quattordicenni sul palco. Forse sarebbe stato troppo dura vederli lì, forse avrebbe provocato in noi più rabbia, più risentimento o forse li avremmo condannati di meno perché sono “piccoli, deviati, inconsapevoli”. Resto quindi dell’idea che la scelta sia stata anche qui perfetta.

La violenza sul palco è rimasta sempre calibrata, non ha mai sopraffatto la narrazione, non ha mai superato il confine dell’accettabile e se questo fa perdere di realismo agli amanti dell’assoluta verità, mantiene intanto quel velo di fiction che è poi la natura stessa dell’opera di Burgess. Anche nella seconda parte dello spettacolo, la parte dell’opera incentrata sul sociale, non scade mai nel didascalico. Ci suggerisce esplicitamente una sola domanda: “meglio un uomo costretto alla bontà o un uomo lasciato libero alla violenza?”. La risposta non è poi così scontata…

Insomma, un successo meritato quello di Arancia Meccanica di Gabriele Russo, che ci fa capire che un buon teatro d’intrattenimento può misurarsi anche con i cult senza tradirli, senza distruggerli, senza scimmiottarli, ma personalizzandoli nella forma rispettando i contenuti.

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