“Nella terra della felicità ogni cosa è finzione”. La citazione è di Theodore Clement Von Beniot e Down De Saint Bastien e Saint Ives ma – più del concetto nichilista – spiazzerà sapere che , nonostante il nome altisonante, a sentenziarlo non è un filosofo ma un enorme peluche parlante, tra i personaggi protagonisti dell’ultimo volume di Fables.
Approda infatti in fumetteria, edito da Lion Comics, il diciottesimo brossurato della serie sulle vicende dei semi-immortali abitanti del quartiere newyorkese di Favolandia. Questo story-arc non segue la vicenda principale delle fiabe esuli, costrette a fuggire dai loro regni a causa delle mire imperialiste dell’Avversario, bensì il fato singolare di due dei sette figli di Biancaneve e del redendo Lupo Cattivo. La storia finora aveva visto la timida Winter diventare erede del defunto nonno, il Vento Del Nord, ma l’autore sceglie di spostare il focus della narrazione per incentrarsi su quelli che maggiormente hanno sofferto per la scelta, catapultandoli in una drammatica disavventura nel Paese dei Balocchi. Questo regno si presenta ben diverso da quello dell’immaginario comune: una castello fatiscente in una palude nebbiosa e cinerea, abitata da giocattoli rotti e spietati. Cor-rotti forse è il termine più giusto, visto che i balocchi di cui si parla non sono i teneri e nostalgici protagonisti di Toy Story, ma tutti quei giochi che si sono macchiati della più grave tra le colpe: l’omicidio dei loro proprietari. Per soffocamento, per avvelenamento, per collusione, per combustione: in quel regno non c’è pupazzo, trenino, costruzione, bambola, inscatolato, imbustato, blisterato esente dall’infamia di aver assassinato colui che gli dava vita con la sua immaginazione. La piccola Therese viene portata lì con l’inganno e le viene offerta la corona in cambio dell’impegno di ripararli. Ma come si può aggiustare qualcosa in un regno dove non cresce niente? Alla fine la grande riparazione avverrà, ma in modo molto diverso da quello sperato e solo grazie al coraggio e al sacrificio del fratello Darien, che salverà la sorella vivendo un’epopea parallela che ripercorre il mito del Re Pescatore.
Il rapporto tra corruzione e redenzione, il sottile velo che separa finzione e realtà, il circolo vizioso tra peccato e senso di colpa sono tra i temi principali di questa fiaba moderna che miscela Collodi e ciclo arturiano: tematiche proprie del mondo dei bambini ma narrate con prosa adulta, oltre che con gli incantevoli disegni di Buckingham. Quello che trovate oggi in fumetteria è non solo uno dei numeri più toccanti della serie, ma quello che maggiormente ne incarna lo spirito. In Fables lo sceneggiatore Willingham ha dimostrato di aver bene imparato la lezione di Neil Gaiman, tra i padri della linea Vertigo: le storie e i sogni sono verità rivestite d’ombra che sopravvivranno quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio. E in effetti sono proprio le storie umanizzate i protagonisti del fumetto. Ma se Gaiman aveva creato un universo narrativo incentrato principalmente su mitologie e leggende urbane, Willingham si rifà a fiabe e folklore riprendendo i personaggi esattamente da dove la loro storia si è conclusa, portando avanti le loro vicende, talvolta fino alle più drammatiche conseguenze. Ed ecco quindi Biancaneve che, dopo aver divorziato col Principe Azzurro per le troppe scappatelle, intraprende la carriera politica diventando un vicesindaco la cui freddezza è degna del suo nome. Il Lupo Cattivo ha avuto un condono sui crimini passati e ricopre con successo la carica di sceriffo grazie al suo proverbiale fiuto. Sprezzante del pericolo più di James Bond, avvenente quanto tutte le Charlie’s angels messe insieme, l’ex sguattera Cenerentola – altra vittima del Principe – veste invece i panni di un agente segreto. Cercando di dare coerenza alle diverse varianti (lo sapevate che Biancaneve ha una sorella di nome RosaRossa gelosa perchè meno famosa?), anzi mettendoli in conflitto con gli stereotipi che il folklore aveva loro impresso, l’originalità di Willingham sta proprio nel non tradire l’origine fiabesca dei personaggi e allo stesso tempo descriverli in maniera tridimensionale, senza appiattirli in stereotipi, come se fossero caratterizzati da una duplice natura: da una parte la loro vita calata nel mondo umano, dall’altra una fedeltà a tradizioni e modi di pensare propri di un infantilismo magico. Queste fiabe (e spesso il lettore) sono alla continua ricerca di quel “vissero per sempre felici e contenti”, che tanto allieta e rassicura il bambino che ognuno cova dentro di sé. Ma solo le storie possono cristallizzarsi in un eterno lieto fine, mentre – osserva Willingham per bocca di Theodore – la somma finzione è un costrutto delicato e basta una scelta sbagliata per far crollare l’illusione.
Il giocattolo non è realmente vivo, gli incantesimi si spezzano, il principe è farfallone, il tesoro nascosto è tassabile. Se l’hanno capito Cenerentola e Biancaneve, se in quest’ultima storia l’hanno imparato sulla loro pelle proprio i figli del Lupo Cattivo, ora non resta che al lettore farlo: crescere è proprio questo, accettare che accontentarsi di un “e vissero felici e contenti… per il momento” non è poi tanto male. Forse dovrei cominciare anch’io.