Il Giovane Favoloso. Fin da piccola, ho sempre provato estrema simpatia per Giacomo Leopardi. Non perché lo trovassi buffo o divertente, in stile pagliaccio circense col naso rosso. La simpatia a cui mi riferisco è la συμπάϑεια intesa come quella inclinazione istintiva che ti porta ad affezionarti ad una persona e a condividerne i dispiaceri.
Ecco, Giacomo Leopardi per me rappresentava una sorta di amico immaginario da difendere, un geniaccio incompreso a cui voler bene. La stessa tenerezza che provavo allora, l’ho riscoperta qualche sera fa, nelle sale di un cinema, guardando Il Giovane Favoloso di Mario Martone.
Il film racconta la biografia del famoso poeta di Recanati, e lo fa in modo elegante, evocativo e delicato. Leopardi ci viene presentato fin da subito come un uomo dall’ingegno impareggiabile, uno studioso attento e scrupoloso dai mille interessi letterari. Passa le sue giornate nella biblioteca del padre, Monaldo, un uomo ingombrante e possessivo, che tenta di esercitare un controllo maniacale sulle emozioni e sul talento del figlio. La madre Adelaide, invece, è una donna fredda, bigotta ed anafettiva, segnata da un cattolicesimo asfissiante e morboso. La sola compagnia del giovane Leopardi, oltre al fratello Carlo e alla sorella Paolina, sono i libri. In una lettera a Pietro Giordani, suo confidente ed estimatore, Leopardi scrive che “unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza”. Di salute assai cagionevole, Leopardi soffrirà molto per la fragilità del suo corpo e il regista indugia con microscopica attenzione sulla deformazione fisica del poeta, consumato dagli anni di “studio matto e disperatissimo”. Ma la gobba, la debolezza oculare, i problemi intestinali non affliggevano il giovane di Recanati più di quanto facesse la malattia dell’animo, ovvero “l’ostinata nera orrenda barbara malinconia” che lentamente lo divorava.
Il film mette in luce con grande maestria l’indole malinconica del poeta, e, senza eccessi caricaturali, fa emergere la passione furente che lo animava, quella forza struggente e ambiziosa che lo spinse a fuggire da Recanati, a confrontarsi con le idee progressive dell’epoca e a cercare conforto nell’amore, quello sfortunato per Fanny Tozzetti, e nell’amicizia, quella fraterna ed ambigua per Antonio Ranieri. Ed è proprio Ranieri a prendersi cura del nostro giovane favoloso, sempre più infermo, sempre più debilitato, negli ultimi giorni della sua vita, trascorsi lungo le pendici del Vesuvio. Il film si muove dolcemente tra i capolavori letterari del poeta, senza mai naufragare nella retorica didascalica.
La fotografia è nitida, le musiche sono avvolgenti, ma a colpire maggiormente lo spettatore è senza dubbio la bravura dell’attore protagonista, Elio Germano, immenso nel ruolo di Leopardi. Con il suo garbo interpretativo, Germano non è mai grottesco, mai eccessivo. Convince quando decanta sull’ermo colle la famosa lirica l’Infinito, commuove quando aggredisce disperato la natura maligna che illude e delude l’uomo.
Se posso azzardare una critica alla pellicola, disapprovo la lentezza di alcuni passaggi e l’eccessiva lunghezza del film, ma nel complesso direi che il tentativo biografico di Martone è più che riuscito. Il Leopardi che ci regala il regista non è solo il pastore errante e solitario della letteratura, ma un uomo vitale, ironico, goloso, ribelle, che si interroga sul senso delle cose oltre l’inquietudine dell’esistenza, oltre il pregiudizio di un pessimismo sterile e vuoto. Un uomo con le debolezze e le fragilità di ogni sognatore in cerca di “amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita”, un caro amico che non ti stanchi mai di volere bene.