Il PAN (Palazzo delle Arti di Napoli) ospita la personale di Frank Shepard Fairey, alias OBEY, fino al 28 febbraio. Sembra un controsenso vedere uno street artist all’interno di un museo, soprattutto se ad accoglierti fisse alle pareti trovi le didascalie del sindaco Luigi De Magistris, del console generale degli Stati Uniti d’America Mrs Barrosse e dell’assessore alla cultura Gaetano Daniele, che ricoprivano di lodi l’artista. Non ho mai notato tanta partecipazione da parte delle amministrazioni o forse l’ho notata solo ora come ulteriore nota discordante (a mio modesto avviso).
C’è da dire che Fairey è diventato popolare nella campagna elettorale di Obama, durante la quale tappezzò la città con l’immagine in quadricromia del presidente, diventata poi icona mondiale. Nell’effige, inoltre, sono riportate parole quali HOPE, CHANGE, PROGRESS e VOTE.Obama stesso, alla fine delle elezioni, ringraziò personalmente Obey per averlo reso parte della sua opera ritenendosi:
…orgoglioso di avere il tuo sostegno.
Ma è doveroso ricordare che la street art nasce nelle periferie come atto clandestino di pura critica verso il potere dominante. Vederla, quindi, così bene accolta, così “globalizzata”, è come svuotarla della sua vera ragion d’essere. Peggio di una birra senza alcool.
Lo stesso curatore Massimo Sgroi, scrive: “La hope è passata, l’arte resta” riferendosi appunto all’immagine del presidente sopracitata e alla crescente delusione apportata dal suo governo, dove di change si è visto ben poco e la hope è evaporata di conseguenza.
Poi aggiungerei, che seppur l’arte sia sempre un atto politico, l’artista resta sempre super partes. Altrimenti è una birra senza alcool. Sfiatata.
L’elezione del presidente nero (parabonzibonzibò) si è rivelata una trovata pubblicitaria al fine di abbonire le periferie afroamericane da sempre vittime di alternative forme discriminatorie di apartheid. Quindi bisognava portarle alle urne usando il loro mezzo affinchè Obeydissero al messaggio. Sto parlando delle stesse periferie in cui negli anni Settanta è nata l’arte di strada come loro unica rappresentante. Portavoce di questo malessere inizialmente furono le scritte di denuncia sui treni metropolitani affinchè il loro disagio arrivasse fin nei quartieri elitari prevalentemente bianchi.
Ma che simpatica inversione di ruoli: il posto sempre stato dell’uomo bianco di potere viene preso da un uomo nero, che ringrazia l’uomo bianco in un’azione tipica da uomo nero. Azione che – adesso che è fatta da un uomo bianco – viene nobilitata ad arte. Nemmeno i Ringo non sono mai arrivati ad un così alto livello di democrazia e di fusione di ruoli. È commovente! Si scusate sto esagerando… sarà la birra senza alcool a farmi questo effetto.
Ora: che un borghese bianco e pure americano mi piazzi una Angela Davis di fianco ad una combattente vietnamita su uno sfondo di arabeschi tra i quali compare il marchio #obey, e che tutto questo sia emblema di pace, a me non è che convinca molto, né mi risveglia impeti rivoluzionari, tantomeno mi incuriosisce.
Le note curiatoriali sono evasive e le opere da sole non reggono. Obey nega ai soggetti rappresentati il loro spessore, li priva di serietà e valore. Si può dire che Warhol faceva altrettanto ma la sua era una nota critica con la quale prendeva le distanze per analizzare la problematica, in Obey l’analisi, il dialogo, la messa in discussione (quindi l’arte) è assente. La sua poetica non è retta da un forte pensiero che non puzzi di qualunquismo. Viene solo spiegato che egli segue i precetti propri alla street art e quindi usa personaggi dal forte potere ieratico in grado di suggestionare e relazionarsi così allo spettatore. Un po’ deboluccia e riduttiva come motivazione.In altri suoi lavori compaiano altre figure femminili rivoluzionarie del vicino Oriente, le zapatiste o volti del comunismo come Lenin o il subcomandante Marcos. Di quest’ultimo è interessante sapere che il 24 maggio 2014 abdica dal suo ruolo e muore simbolicamente dichiarando:
“La mia immagine pubblica è stata una distrazione. Il mio è stato un travestimento pubblicitario”.
Questo spiega quanto può nuocere, se usato in eccesso e a sproposito, il ruolo di un’icona. Si ritrova ad essere manipolato da un potere fuori di sé ed è spesso il potere contro cui lotta. Così il subcomandante ha ucciso la sua immagine per non offuscare né minimizzare la forte problematica del popolo messicano. Ne approfitto per dirvi che a dicembre si è tenuto in Chapas il primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo.
Ora io non ho capito, e manco mi interessa capire a sto punto, se questo Obey c’è o ci fa.
Il suo marchio è caratterizzato dalla faccia stilizzata del giocatore di wrestling Andrè the Giant, col quale tappezzò tutta la città, finendo anche nel documentario dedicato a Bansky. Obey afferma che non c’è un motivo che l’ha indotto a scegliere quel soggetto: io un’idea l’avrei, dato che il wrestiling è una pagliacciata grottesca.
A parte una grafica di facile impatto giocata sull’accoppiata vincente rosso/nero, oltre un valore estetico (discutibile), non è che ci legga una grande morale, se non un’azione di marketing. Non è un caso se la prima stanza della mostra ospita una serigrafia di Fairey rappresentante Warhol, al quale si è ispirato sia per la tecnica che per la reiterazione dei suoi soggetti.Ma se la serialità di Warhol annulla il soggetto, quella di Obey tenderebbe anche ad inculcarne passivamente il messaggio. Infatti credo il suo nome d’arte si debba al film “Essi Vivono” di John Carpenter, nel quale ogni immagine pubblica cela messaggi subliminari in grado di corrompere ed assoggettare inconsciamente l’individuo. Il nome d’arte scelto da Fairey, in effetti, non è molto democratico.
Ora: capite perchè tutta questa simpatia da parte del potere politico verso l’arte di strada mi puzza un po’. De Andrè cantava “Non esistono poteri buoni”. Ogni volta che si legittima una sana forma di protesta in controparte al potere vigente, ecco che stiamo assistendo alla costruzione silente della dittatura dolcificata, più nota come consumismo, dove “con le buone” si annienta la controparte.
Nelle favole, quando si sconfigge il “nemico” vuol dire che la conclusione della storia è vicina.
La nostra società sta costruendo la propria fine. Sotto il segno del dollaro.
Pochi giorni fa, al TG1 (quindi non Studio Aperto, nè la rubrica Costume e Società) una delle notizie principali era sulla squadra che ha vinto il campionato di Football Americano: ecco un esempio di dolcificante.
Quindi, permettete che quando vedo uno street artist legalizzato, è come quando sento i plurisessantenni di sinistra che con orgoglio rivendicano di essere stati degli ex-democristiani, come quando penso ai comunisti italiani che ci tengono a sposarsi in chiesa, come quando scopro che una buona parte dell’elettorato dei M5S sono ex timorati di Silvio e quelli rimasti fedeli alla sinistra ora hanno Renzi, o come me che, da qualunquista qualunque, critico tutto senza capire, né fare mai niente!
Aiuto!
A parte l’ultimo punto, il resto sono cose che non lasciano scampo o spazio alla dignità umana. Tutta gente da cui diffidare! C’è un massimo comune denominatore in tutte queste categorie che vi ho appena elencato: sono piccoli borghesi.
La borghesia è la classe sociale divenuta il nostro cancro.
Siamo cancerogeni.
Fermiamoci e curiamoci.
Curiamoci anche e soprattutto con l’arte. Ma quella vera.
Chiudo con uno slogan, forma tanto amata dalle strategie di vendita quanto dalla politica (la linea di confine tra le due si assottiglia sempre più):
Arte, diffidate dalle imitazioni!
Anzi, poiché mi è venuto in mente quanto ho letto mesi fa nella rubrica Talk Show di Artribune, voglio riportare parte del pensiero di H.H.Lim, artista cino-malese, in merito al rapporto tra artisti e mercato dell’arte durante gli anni della crisi:
In passato il mercato esaltava un artista sempre dopo una lunga esperienza di ricerca. Invece oggi ha rovesciato questa visione, creando un nuovo punto di vista che condiziona l’artista, spingendolo a falsificare la propria creazione per seguire il successo economico. Per un artista è importante avere un valore ma, quando questo valore diventa un condizionamento, rischia di portare una falsa testimonianza del nostro tempo verso il futuro. È chiaro che per vivere e per produrre c’è bisogno di denaro, però il mercato non può essere l’unico strapotere che domina il mondo dell’arte.
SHEPARD FAIREY: OBEY al Pan
Dove: Napoli, Pan | Palazzo delle Arti Napoli – Palazzo Roccella (via dei Mille 60)
Quando: dal 6 dicembre 2014 al 28 febbraio 2015
Orari: dal lunedì al sabato dalle ore 9.30 alle ore 19.30; domenica dalle ore 9.30 alle 14.30.
Ingresso: € 8,00 intero – € 6,00 ridotto