Fin dai suoi primi passi, il mondo cinematografico ha avuto la tendenza ad assorbire nel suo universo di celluloide personaggi e storie le cui radici originarie risiedono nella carta stampata della narrativa.
Antonioni, Coppola, Herzog, Kubrik: anche i più grandi registi non hanno disdegnato ispirarsi per i soggetti delle loro pellicole a romanzi più o meno celebri. Una sceneggiatura non originale può diventare un (capo)lavoro a sé stante, se il regista adegua la storia al linguaggio del medium, alle sue esigenze e ai suoi ritmi peculiari. E’ quello che prova a fare il regista Stephen Daldry con il film The Reader (2008, Usa-Germania), tratto dal best-seller omonimo di Bernhard Schlink, a tal punto che non si capisce bene se, oltre che nella forma, si distacchi anche nei contenuti dal romanzo tedesco.
Mentre il romanzo è molto lineare, nel film il baricentro della trama si sposta da un nucleo narrativo ad un altro, spiazzando lo spettatore proprio quando si è ambientato, quando sembra essersi illuso di aver capito dove il film stia andando a parare. Attraverso il ricorso a frequenti flashback, infatti, tre linee temporali si intersecano in cornici intrecciate e sfalsate. Volendo porre i tre periodi temporali lungo un unico asse, un primo segmento è costituito dall’adolescenza del protagonista Michael Berg (in quest’età interpretato da David Kross) nella Germania post-bellica che è lo sfondo della sua iniziazione sessuale ad opera di Hanna Schmitz (una sbalorditiva Kate Winslet), una taciturna e rude donna trentacinquenne: la loro storia si brucerà tra amplessi e letture ad alta voce, fino al giorno in cui lei lo abbandona improvvisamente e senza una spiegazione. Il secondo segmento ripercorre gli anni del college, durante i quali Michael, che segue un seminario di diritto, si troverà ad assistere al processo di sei ex-guardie delle SS nei campi di concentramento, tra le quali figura l’ex amante accusata insieme alle altre cinque della morte di 300 donne ebree. Le altre imputate additeranno Hanna come unica responsabile della strage, sulla base di un documento che la donna avrebbe redatto: la verità (che solo Michael conosce e che non avrà il coraggio di svelare) è che Hanna è analfabeta e non può averlo scritto, ma la donna si farà accusare e condannare all’ergastolo pur di non vivere la vergogna dell’ammissione del suo analfabetismo. L’ultimo segmento ripercorre la vita adulta di Michael (Ralph Fiennes), divorziato e anaffettivo, che per alleviare la solitudine di Hanna inizierà a registrare su audiocassette la lettura di libri che le invierà in carcere: con quelle registrazioni la donna inizierà un percorso da autodidatta per imparare a leggere e scrivere, attraverso il quale allevierà la sua pena, ma non la cancellerà.
Disturba questo film.
A tratti emoziona anche, ma per lo più disturba. Annoia in alcuni momenti, eccita in altri. Coinvolge, poi sconvolge, poi soffoca, infine svuota. Sarà per questo che il tema di fondo si fa fatica a definire.
E’ un film sulla educazione sentimentale?
Sulla perdita dell’amore e dell’innocenza?
Una metafora sul senso di colpa dei tedeschi nel dopoguerra?
Una riflessione etica sulla legittimità di aiutare qualcuno nonostante per quest’ultimo significherebbe il massimo della vergogna?
Un’apologia sulla lettura come strumento di espiazione e redenzione?
Parte della critica l’ha osteggiato perché vede questo rapporto (tra una giovane Germania, postbellica e dotta, che fa l’amore con una Germania adulta, ancora rea per il sangue versato) un modo di sminuire, quasi assolvere, le colpe dell’olocausto. Come se la sensuale nudità della Winslet rendesse meno repellente un personaggio i cui crimini non vengono mostrati. Altri come un tentativo di ripercorrere in chiave narrativa quanto sostenuto da Hannah Arendt: l’analfabetismo di Hanna Schmitz simboleggerebbe la condizione di ignoranza del popolo tedesco sul genocidio che stava perpetuando, così come la difesa del crimine che il personaggio approccia in tribunale, talmente incapace di immaginare una realtà diversa da quella che aveva davanti, coinciderebbe con quello che la filosofa definisce la banalità del male.
Eppure c’è quel titolo: The Reader. Il lettore. E la lettrice.
Suggerisce che il ruolo dell’atto del leggere sia la chiave di (appunto) lettura del film. In tutta la vicenda, i due amanti si lasceranno travolgere dalle parole di capisaldi della letteratura come l’Odissea di Omero, Guerra e Pace di Tolstoj, le poesie di Rilke. E La Signora col cagnolino di Checov. Soprattutto la Signora col cagnolino, sulla cui trama in parte si modella la loro storia – è il racconto di storia d’amore adulterina interrotta bruscamente e dal finale sospeso, proprio come quella di Michael e Hanna.
Tutte queste parole, lette e ascoltate, li avvicinano, poi li ricongiungono, ma a conti fatti non li uniranno mai. Perché è come se non fossero in grado di assorbirle, di interiorizzarle. Si fermano sulla superficie della loro epidermide, ma poi vengono via con un colpo di spugna ad ogni bagno nella vasca. Anche nel loro ultimo, gelido incontro, Hanna pur avendo imparato a leggere, dimostra tuttavia di non aver affatto ridimensionato la sua ignoranza, intesa come non conoscenza della sua colpa. Già al processo Hanna non avrebbe dovuto provare imbarazzo per il suo analfabetismo, ma della incapacità di apprendere – e ammettere – la gravità dell’errore compiuto. Lei prova imbarazzo per sé e il suo vissuto, ma non per la colpa di fronte all’umanità e alla storia. E per questo apprendere la lettura dell’alfabeto non la riscatterà, perché non ha imparato a leggere quegli eventi di cui è stata parte. Di fronte all’inconsapevolezza dell’inconsapevolezza, quei libri che l’hanno aiutata a tenersi in vita saranno il trampolino per farla finita.
Imparare a leggere se stessi.
Imparare a leggere la realtà intorno a se stessi.
Imparare a leggere la vita.
E’ questa forse la mancanza e la colpa, che accomuna i due protagonisti e non li fa avvicinare mai davvero. In fin dei conti a che serve saper leggere un testo se non si è poi in grado di interpretarlo?