Il titolo non lo abbiamo scelto a caso: quest’anno al Napoli Teatro Festival 2014 eravamo in due, abbiamo occupato a staffetta le platee dei teatri partenopei non come semplici spettatori ma come “addetti stampa”. Questo articolo è scritto, quindi, a quattro mani, facendo affidamento ai nostri “quattro occhi” per l’esperienza a “quattr’occhi” con gli spettacoli. Giochi di parole a parte, dover avere un occhio critico è molto diverso dal godersi una piéce semplicemente per trascorrere una bella serata: l’attenzione inizia ad andare anche su dettagli prima ignorati come le luci, i costumi, il movimento sul palcoscenico, l’accento degli attori.
Tutti particolari che rendono molto difficile una recensione critica, ecco perché quando si chiede ad un giornalista: “ti è piaciuto lo spettacolo?” storce il naso! Non è semplice rispondere soltanto sì o no, i fattori sono tanti, ma nello stesso tempo quello che le persone vogliono sapere è “val la pena andarci oppure no?”. Cercheremo quindi di dare il nostro modesto giudizio sulle opere viste, mediando tra lo spirito critico alla Vittorio Sgarbi e le disinvolte osservazioni di Enzo Miccio.
Il Giardino dei Ciliegi – Un (troppo) vecchio classico del teatro
testo originale di Anton Chechov, adattamento e regia di Luca De Fusco
Un’aristocratica famiglia russa fa fatica ad adattarsi allo status quo della nuova Russia del XX secolo fino a pagare sulla propria pelle l’incapacità di contrapporsi a questa inerzia esistenziale: questo il nucleo di un’opera che nelle intenzioni originali di Checov doveva essere una commedia, ma che è stata spesso rappresentata da molti registi (tra i quali anche Stanislavskij) come una vera e propria tragedia: una duplice (involontaria) natura che permea anche l’adattamento di De Fusco, suscitando alternanza di sorrisi amari, occhi umidi e, verso il finale, qualche rumoroso sbadiglio.
Recitazione: ottima l’interpretazione della protagonista Gaia Aprea nel ruolo di Ljuba, controbilanciata da una recitazione piuttosto didascalica e “scolaresca” degli altri personaggi femminili. I ruoli maschili restano piuttosto in ombra, delusione anche per l’interpretazione di Paolo Cresta nei panni di Jaša.
Scenografie e costumi: punto forte dello spettacolo i meravigliosi costumi di Millenotti che si sposavano superbamente con il candore delle scenografie di Maurizio Balò. Il bianco marmoreo e trionfante con cui è rappresentata la decadente tenuta è un perfetto preludio del niveo fantasma che si appresta a diventare.
Sensazioni: nonostante sia una voluta e motivata scelta stilistica del regista, inizialmente disturba questa marcata cadenza napoletana di personaggi così squisitamente russi. Fastidio che si smorza man mano che la trama incalza e che ci si addentra nell’opera. Forse un adattamento che non convince al cento per cento, ma che val la pena vedere anche solo per far la conoscenza del controverso personaggio di Ljuba, cuore pulsante della storia.
Peggy Guggenheim – Una donna d’altri tempi nel nostro tempo
testo di Lanie Robertson, regia di Alessandro Maggi
Un monologo per raccontare una delle figure chiave del ‘900 in ambito artistico: una mecenate scomoda e bistrattata, forse perché essere donna ed essere intenditrici d’arte allora (come adesso) sembrava una contraddizione biologica. In questa pièce risplende l’eclettica personalità di Peggy Guggheneim, il suo estro, le sue fissazioni, la sua incapacità di amare nel senso classico del termine. Nei quattro tableaux che compongono la rappresentazione, la regista non demonizza né santifica questa emblematica figura, lasciando lo spettatore libero di innamorarsi o di odiare il personaggio.
Recitazione: Fiorella Rubino parla a macchinetta in un monologo di un’ora e venti minuti. Al di là della sua impeccabile performance – che ha reso perfettamente l’eclettismo e la fragilità di Miss Guggheneim – un plauso va anche alle sue capacità (per così dire) linguistiche e respiratorie!
Scenografie e costumi: scenografia minimal (anche in questo caso è il bianco a trionfare nei pochi versatili mobili di scena) che si avvale delle tecnologie digitali in un fondale quasi ologrammatico che proiettava filmati, quadri o animazioni secondo le esigenze di copione.
Sensazioni: una pièce davvero piacevole, che combina il teatro come forma di intrattenimento e di informazione in una sorta di documentario estemporaneo. Appena uscita dal teatro ho avuto subito il desiderio di vedere altri simili monologhi su altri personaggi della “storia pop” del nostro tempo.
Le ho mai raccontato del Vento del Nord – L’amore ai tempi del web 2.0
Di Daniel Glattauer, regia di Paolo Valerio
Trasmigrano dalla narrativa al palcoscenico le vicende dell’omonimo successo letterario dello scrittore austriaco Glattauer: per una pura e plausibile casualità dell’era di Internet prende avvio una corrispondenza e-pistolare tra Leo e Emmi che si dipana in un’attualissima storia d’amore, di quasi amore o di pseudo amore.
Recitazione: danno voce e gestualità alle email di Emmi e Leo rispettivamente Chiara Caselli e Roberto Citran, entrambi preparatissimi, entrambi perfettamente a loro agio nei panni del personaggio che interpretano (forse il secondo una spanna sopra alla prima). La prova più dura che hanno dovuto affrontare (e che superano a pieni voti) è stata condividere per quasi due ore un palco con un’altra persona, fingendo però che non sia fisicamente lì, che sia soltanto un’ideale che per l’altro esiste sotto forma di parole coagulate in un’immagine di fantasia.
Scenografie e costumi: i due studi separati da un vuoto ideale e sullo sfondo lo schermo in cui sono proiettate le loro e-mail (vero luogo dove si svolge la loro relazione, oltre che nelle loro teste e nei loro cuori), sono una perfetta rappresentazione dello spazio in cui Antonio Panzuto poteva immaginare di “ricostruire” metaforicamente la distanza fisica che separa i due “amici di penna”.
Sensazioni: leggendo il plot ci si potrebbe aspettare una storia sulla falsariga di “C’è posta per te”, ma la vicenda di Emmi e Leo ha poco da spartire con gli hollywoodiani Tom Hanks e Meg Ryan, anzi qui la situazione è paradossalmente capovolta. Più che emozioni (in cui è predominante la suspense verso il finale) ad affiorare sono i dubbi e le riflessioni sulla natura artefatta dei sentimenti e della relazioni umane, sul rapporto tra reale e virtuale che internet ha probabilmente soltanto amplificato!
Good People – Come su un set cinematografico o in una tela di Hopper
di David Lindsay-Abaire, regia di Roberto Andò
Altra pièce molto attuale che affronta la tematica della crisi economica miscelandola con quello della fortuna personale e dei rapporti tra ceti sociali più e meno abbienti. In una Boston moderna, attraverso le vicende della disoccupata Marghie Walsh, i rappresentanti del quartiere popolare si incontrano\scontrano con quelli dell’alta borghesia a colpi di battute frizzanti e dialoghi arguti.
Recitazione: un cast omogeneo, nel quale spicca la performance di Michela Cescon, che sa donare spessore e carattere a un personaggio decisamente sopra le righe. Non che Lazzareschi, la Solfizi e gli altri non siano bravi, ma la voce della protagonista è così magnetica e carismatica che ruberebbe la scena anche guardando lo spettacolo ad occhi chiusi.
Scenografie e costumi: Gianni Carluccio è riuscito nel difficile compito di ricostruire i molteplici volti di una città in un cubo di rubik in cui ogni faccia è un ambiente urbano: ricostruendo un’affascinante metropoli con le sue contraddizioni, il seminterrato di una chiesa, il retro di un magazzino, uno squallido appartamento e una villa di lusso sono incastrati l’un l’altro e ruotano al ritmo della trama che si dipana.
Sensazioni: così come gli inglesi hanno una intrinseca tendenza alla musica, gli americani hanno una inclinazione naturale per il mondo cinematografico. La struttura stesso dello spettacolo, comparsa e scomparsa delle scenografie come in uno zoom da cinepresa, i temi impliciti e poco sviluppati della trama (il razzismo, la vita da ghetto, lavoro nelle catene multinazionali) sembrano una base perfetta per un american movie.
Ecco terminata la nostra panoramica sul Napoli Teatro Festival 2014. Quattro palcoscenici diversi, una tromba d’aria superata, maschere che non credevano esistessero addetti stampa teatro under 50, tutto questo (ah! e la bellezza del teatro internazionale e di prime mondiali) ci han fatto già venir voglia della prossima edizione. Ci vediamo l’anno prossimo!
Intanto KEEP CALM AND GO TO THE THEATRE!