di Daniele Gnoni, redattore di Versus
Un bel giorno di qualche decennio fa, un certo signore ha pensato bene di scrivere queste belle parole: “Non si può mangiare né bere per otto ore di fila, e neppure fare l’amore. La sola cosa che si può fare per otto ore è lavorare. Ed è questa la ragione per cui gli esseri umani rendono così disperati e infelici se stessi e gli altri.” Questo signore era William Faulkner, e tra una riga e l’altra si è beccato un Nobel per la letteratura nel 1949.
Ora, da buon terrone avrei qualcosa da ridire sulla presunta impossibilità di mangiare e bere per otto ore consecutive (chiunque di voi abbia fatto esperienza di matrimoni, comunioni, battesimi e simili riti di autolesionismo tipici del Profondo Sud sa bene di cosa parlo), ma non è di stomaci che voglio discutere. E no, questo non è nemmeno un articolo sulle iperboliche res gestae di questa o quella coppietta di innamorati. Ciò di cui vorrei scrivere è il tempo che trascorriamo rendendo disperati e infelici noi stessi e gli altri, citando il buon Faulkner.
Da studente di economia, intendo farlo in una chiave pragmatica, materiale, misurabile: viviamo un giorno dopo l’altro scivolando tra interminabili ore di lezione, ancor più eterne ore di studio, sempre troppo poche ore di sonno, al meglio un’oretta abbondante rubata per i pasti, i cinque minuti alla volta per il caffè o la sigaretta. Lo scenario risultante è qualche centimetro di occhiaie in più a fine giornata. L’immagine proposta dai media e dalle chiacchiere da piazzetta di paese (spesso le due cose coincidono pericolosamente) è quella di una società in cui tanti di noi vendono il proprio tempo “a ore” in cambio di uno stipendio come se si trattasse di chili di patate, formulando contratti in cui si rinuncia giuridicamente alla propria vita, un pezzetto alla volta, per ricevere quel poco che basta per potersi svegliare il giorno dopo e cedere un nuovo pezzetto. E’ pur vero che ci sono persone che svolgono con piacere e passione il proprio lavoro, ma costituiscono una minoranza.
D’altra parte, la saggezza popolare ha sempre recitato, dall’alto del suo trono inzuppato di verità incontrovertibili, che “il tempo è denaro”. Sarà, ma pur riconoscendo che in tempi di crisi economica il denaro diminuisca, a me pare che quel magico 24 sugli orologi non cambi un granchè.
Tutto perchè un non meglio definito “Sistema” ce lo impone: ma quanto c’è di vero in questo? Siamo realmente costretti a vivere rincorrendo due lancette o esiste un’alternativa, una via d’uscita?
Una proposta concreta arriva da economisti come Serge Latouche, uno dei maggiori sostenitori della decrescita, corrente di pensiero nata intorno agli anni ’70 secondo cui una società diversa è possibile: un mondo più equo, più umano e equilibrato, disinfettato dalla patologica e frenetica corsa al “di più”.
Uno degli assunti fondamentali della teoria della decrescita, facilmente comprensibile anche ai non addetti ai lavori, è che l’idea di crescita illimitata su cui si basano le più diffuse e accettate istituzioni socio-economiche sia utopica e materialmente irrealizzabile dal momento che le risorse non rinnovabili utilizzate nei processi produttivi sono economiche, ovvero scarse. Per di più, gli indicatori statistici di crescita e benessere che tutti siamo stati abituati a conoscere e ad accettare, primo fra tutti il PIL, non tengono conto di fattori essenziali quali la sostenibilità ambientale di un’economia, il benessere reale dei cittadini e in che misura equità e uguaglianza sostanziale siano garantite dai governi.
Il carattere più innovativo, rivoluzionario e spesso dimenticato o frainteso della cosiddetta “decrescita felice” è che la teoria non prevede semplicemente una diminuzione della produzione (in parole povere, non crescere affatto), bensì il passaggio a un uso più razionale e mirato delle risorse al fine di consentire una vita migliore a una sezione il più trasversale possibile della popolazione mondiale.
Pur soffocata da pressioni culturali, politiche e istituzionali che continuano a ribadire quando la nostra esistenza dipenda da un +qualcosa% a fine anno (pressioni su cui potremmo scrivere papiri), l’idea di poter vivere realmente in armonia con noi stessi e col tempo che passa si fa sempre più strada anche tra noi comuni mortali. A questo proposito consiglio di a dare un’occhiata al blog di Simone Perotti, manager italiano che un bel giorno ha deciso di mollare tutto e dedicarsi alle sue passioni di sempre: la penna e la vela (NdR il figo nella foto a dx).
L’intento di questo articolo non è quello di sovvertire un sistema capitalistico con due secoli di storia, né tanto meno quello di fare della pubblicità a uomini come Latouche e Perotti: di sicuro non hanno bisogno di me per avere visibilità. Vorrei invece rivolgervi l’invito a riprendere in mano le vostre giornate, fosse anche solo per una volta. Lasciate le Marlboro sul comodino, spegnete cellulari e computer, chiudete i libri: vi assicuro che gli emendamenti di un decreto legge di trent’anni fa non cambieranno fino a domani e che Feuerbach non cambierà idea sull’essenza della religione mentre voi sarete via. Uscite di casa, state con le persone che amate, leggete una poesia, cantate una canzone, o semplicemente dedicatevi alla nobile arte del far niente.
Secoli fa, un’allevatrice di animali esotici mi disse che un giorno potremmo non avere più il tempo di sollevare lo sguardo dai nostri piedi in corsa e ammirare il cielo, le stelle. In un tempo come il nostro, la via di fuga sta nelle piccole attenzioni donate e ricevute da chi ci sta intorno, nella condivisione di un sorriso o di un secondo di silenzio, nella pigra bellezza di una pausa.
Ora mi rivolgo a te, caro lettore. Se hai avuto la pazienza di leggere queste righe fino a qui, hai già perso fin troppo tempo: spegni il pc, alza il culo dalla sedia e vivi il tuo tempo.