Quando si legge un romanzo o un racconto di Kafka Praga presto ti si rivela più dell’ambientazione, è un personaggio, è uno stato d’animo. Mentre passeggiavo tra le strade della capitale ceca e guardavo in lontananza il Castello mi sono ricordata di quando, appena adolescente, dopo la lettura di qualche brano sul libro di antologia, mi convinsi che Kafka era senza dubbio uno dei più grandi geni mai esistiti. Tornata a casa, scavando nella libreria di mamma, trovai un libricino bianco, lucido, con uno scarafaggio iperrealistico in copertina (solo molti anni dopo avrei scoperto che l’autore aveva chiesto esplicitamente di non mettere l’immagine dell’insetto in copertina): “La Metamorfosi” prometteva di essere grandioso già dal titolo. In meno di due ore avevo letto uno dei racconti che più mi avrebbero condizionato in assoluto nella mia formazione. Ricordo ancora la sensazione di brividi alla nuca, l’angoscia, l’emozione di aver scoperto qualcosa di bello e buio, la claustrofobia che mi assaliva mentre sfogliavo le pagine, la rabbia di figlia che non ammette sia possibile non trovare nella famiglia un soffice cuscino.
Oggi l’ho riletto, perché sono passati anni e perché mentre attraversavo la capitale ceca mi sembrava stranamente di conoscerlo un po’ di più e di vederlo sotto un’altra luce.
Come non ci sarebbe Dante senza la sua Firenze, così non ci sarebbe Kafka senza Praga. In un racconto ʻchiusoʼ come La Metamorfosi, ambientato tutto all’interno delle mura domestiche, si sente e si respira comunque in ogni pagina la città del Castello, degli Spettri, del ghetto ebraico, del Golem. A Praga non esiste luce senza ombra, per ogni muro candido che riflette il sole si staglia sul terreno un’ombra infinitamente lunga, spigolosa, crudele, lancinante. Il Golem protettore è anche folle e ingestibile, dunque nemico da fare a pezzi. Ogni figlio amorevole e dedito alla famiglia è anche un orrendo scarafaggio da tenere chiuso in camera. Ogni strada ha un fantasma, ogni luogo una sofferenza e, insieme, atti di meravigliosa purezza, coraggio e bellezza.
Leggendo Kafka Praga ti si rivela: tutto è talmente bello da inghiottirti, divorarti, dilaniarti e lasciarti spoglio, solo e vulnerabile.
Come sarebbe stato Kafka se non fosse stato un ebreo in una società antisemita? Una società che poco dopo ha rinchiuso, umiliato, “imbestialito” gli ebrei, confinandoli in spazi in cui non si poteva far altro che aspettare la morte? E in tal senso è tanto diversa dai campi di concentramento la stanza in cui Gregor Samsa è costretto a rimanere, mentre lentamente rinuncia alla sua umanità, dignità, trasformandosi in quello che gli altri vedono, un ributtante mostro? E l’aggrapparsi ai suoi oggetti, alla foto, unici ricordi ormai di una vita da Uomo persa, sono così incomprensibili alla luce di quello che accade al ʻdiversoʼ, all’indesiderabile, al perseguitato impotente?
E, estendendo la riflessione: è tanto diversa quella stanza dalla condizione di ogni essere umano in quanto tale?
A me sembra che Gregor Samsa sia tutti noi.
Il terrore di ritrovarsi ad essere un gigantesco insetto che non riesce più a compiere i più semplici gesti quotidiani, che non trova appoggio nel nucleo familiare (e cos’è poi la famiglia, se non una piccola società?), che pur parlando non può essere capito, che compie gesti di tenerezza non apprezzati, che arriva alla consapevolezza di non essere nulla se non quel parassita indesiderato che occupa una stanza, in una casa, solo, ci caratterizza tutti.
Chi di noi non soffre dell’ombra del Castello, del Padre, di colui che ci nutre e ci ferisce incastonandoci cibo nella pelle fino a farci sanguinare l’anima, per l’impossibilità di evadere, di affrancarci dalla sottomissione insita nella dipendenza, economica e affettiva, e l’incapacità di non sentirsi sempre Inferiori di fronte al Grande Passato?
Chi di noi non ha subito il disappunto, il distacco, il disgusto, anche dei più cari, che di fronte alle nostre scelte da loro non condivise non riescono a far altro che chiudere la porta, vivendo il proprio dolore, ognuno dietro un muro a separarli l’uno dall’altro?
Chi di noi, pur facendo tanto, non è afflitto dal senso di colpa costante, dal bisogno di compiere il proprio dovere, dalla paura di deludere gli altri, dalla consapevolezza delle proprie debolezze e di ciò che ci rende disgustosi e infimi?
Chi, per paura del giudizio, dello sguardo altrui che svela, giudica, indaga, non si è coperto con un lenzuolo, cercando di risultare meno ʻanimaleʼ, meno se stesso?
Chi di noi non si è sentito e si sente ogni giorno diverso?
E infine, chi di noi non ha sperato di trovare conforto, allungando le proprie zampette in direzione della “gonna” della persona amata, desiderando di chiuderla con noi nella nostra stanza, farle capire che saremmo pronti a tutto per lei, ad ascoltarla suonare il violino per ore, spiegandole che noi, solo noi possiamo darle davvero Amore?
In tal senso, La Metamorfosi non è solo la storia di Gregor Samsa. Non è solo la storia di un discriminato. Non è solo la storia di Franz Kafka. Non è solo la storia di Praga, ma Storia dell’Uomo.
E allora ecco perché sento nella pancia, nel petto e negli occhi Gregor Samsa, Kafka e Praga.
“Tutto ciò rendeva Praga, nella sua meravigliosa bellezza, una città piena di incanti e di spettri, e faceva di essa il simbolo dei vuoti e delle ombre della vita”
[C. Magris, Fortune e sfortune di un trittico. Una storia quasi praghese, 1993]