Uno degli autori che immagino sempre, guardando le sue opere, strizzarmi l’occhio, e certamente un rivoluzionario, un anti-accademico, un’artista che sfida le convinzioni e il moralismo del tempo mostrandosi ai nostri occhi come audace e dall’occhio spregiudicato: Edouard Manet.
La confusione con Claude Monet non è ammessa, entrambi rivoluzionari a modo proprio, ma con un’arte distinta e nettamente riconoscibile. Sebbene la critica ufficiale considerasse Edouard Manet il padre dell’impressionismo, lui rifiutò questa collocazione e non partecipò mai alle esposizioni del gruppo.
Sono dello stesso periodo (1863) le opere, “Colazione sull’erba” e “L’Olympia”, che furono oggetto di scandalo, ed è curioso pensare che, proprio grazie a questo particolare, queste siano le più famose e ricordate dell’artista.
Edouard Manet si forma alla scuola classicista e le sue opere mostrano il retaggio di questa scuola, ma lui è un rivoluzionario e vuole rappresentare le cose così come sono.
Non si fa scrupolo pertanto, nella Colazione sull’erba, di rappresentare intellettuali che fanno colazione con una donna nuda, né rinuncia a rappresentare la Olympia in tutta la sua sfacciata nudità. Il risultato? Il Salon ufficiale, ovvero quello dell’Academie des beaux-arts di Parigi, rifiuta le sue opere. A detta dalle fonti, le opere rifiutate dall’Accademia di Parigi furono circa 3000. Molte di queste confluiranno nel Salon des Refusés (salone dei rifiutati), creato da Napoleone III nel 1863, per accogliere opere rifiutate dal Salon ufficiale.
Ne “La colazione sull’erba” la colazione mattutina si svolge tranquillamente e la quiete del luogo lascia che la conversazione tra due uomini prosegua indisturbata: gli uomini sembrano non essere scossi da una presenza del tutto anomala di una donna che siede nuda accanto a loro e non è da meno la donna che sullo sfondo si bagna in uno stagno, ma lo spettatore sì, tanto che l’opera è subito bollata come scandalosa.
Lo stesso destino spetta alla “Olympia“, dove Manet, su ispirazione de “La Venere di Urbino” di Tiziano, tramuta la pudica e fedele donna in una spregiudicata e sfrontata, che diviene simbolo del concetto contrario. La sfrontatezza colpisce, il particolare del collarino stretto e quasi soffocante sembra spronarla ad assumere un atteggiamento autorevole. Il contrasto continuo tra pelle bianca e collarino nero, gatto nero e donna nera, non possono sfuggire all’occhio. Con questo stratagemma il contorno si inabissa e i fari sono puntati solo su di lei: l’Olympia.
Facciamo un confronto tra questi capolavori, “La Venere di Urbino” di Tiziano (1538) e “L’Olympia” di Edouard Manet: osservandole si può sicuramente dire che Manet debba molto all’ispirazione rinascimentale italiana, ma che la sua è solo ispirazione e non emulazione visto che dà vita ad un capolavoro che non vuole eguagliare il precedente, ma superarlo: l’Olympia divora arditamente la Venere e il passaggio alla modernità è avvenuto.
Manet deve molto alla tradizione artistica italiana e l’Olympia ne è la prova evidente, prova che tra l’altro non è smentita anche da altri capolavori. Ricordo che Manet fu in Italia in varie occasioni (1853-1857-1874) e in particolare a Venezia, Firenze e Roma.
Si può affermare in definitiva che fin dal 1850 Manet si sia “nutrito” dell’arte italiana e che grazie a questa abbia rotto il valico che lo separava dalla modernità. E’ lui, senza dubbio, con queste due grandi opere a rompere con la tradizione e a guadagnarsi l’immortalità con delle opere che, ancora oggi, stupiscono l’occhio di chi le guarda.