La mia avventura al Napoli Film Festival 2015 è iniziata piuttosto tardi. Precisamente venerdì mattina, all’ingresso del cinema Metropolitan, location, insieme al Palazzo Arti Napoli, l’Instituto Cervantes Napoli e Institut Français Napoli, della kermesse cinematografica che ha investito la città partenopea dal 28 settembre al 4 ottobre.
Sono giunta al cinema con una nota di emozione, impaziente di ricevere il mio primo accredito stampa al Napoli Film Festival.
Timidamente mi sono avvicinata al banco informazioni per fornire le mie credenziali, ma non c’era nessuno ad accogliermi. L’unica voce che sentivo era quella del tizio del bar che parlava al telefono. Come una turista spaesata, ho chiesto allo svogliato barista a chi dovevo rivolgermi per ritirare il mio prezioso bottino e gentilmente il signore mi ha indicato la strada. Dopo aver percorso un lungo e solitario corridoio, illuminato dalle locandine al neon dei film, sono giunta al banco del Festival. Un simpatico giovanotto ha messo fine alla mia impazienza, riferendomi che per l’accredito avrei dovuto aspettare l’arrivo del personale addetto. Nell’attesa, mi sono intrufolata in una sala, dove, con molta ingenuità, ho pensato di ingannare il tempo stravaccata su una poltrona, con il sottofondo di un bel film e il vuoto cosmico intorno. Con mia enorme sorpresa, la sala era piena di persone che ridevano di gusto assistendo alla proiezione del lungometraggio di Francesco Albanese, Ci devo pensare. Con lo scetticismo che riservo alla commedia italiana di stampo medio, ho dato uno sguardo distratto alla pellicola e ho scoperto che il film era divertente davvero.
Alla fine della proiezione, ho raggiunto il banco del Festival e ho conquistato il mio tesserino e la mia cartella stampa. Con lo sguardo fiero di una giornalista affermata, ho sfilato per i corridoi dell’Institut français Napoli per assistere all’attesissimo corto Blue Lips, progetto cinematografico di un gruppo di filmmaker provenienti da tutto il mondo, incontratisi alla Facoltà di Cinema di Los Angeles nel 2011. Ogni personaggio è diretto da un diverso regista, ma il risultato è sorprendentemente coeso e penetrante. Dopo aver sbirciato qualche altro corto, sono tornata a casa con la promessa di ritornare l’indomani al Festival per assistere all’incontro con Francesco Munzi e con le sue Anime Nere.
Essendo una persona di parola, alle 10:30 di sabato mattina ero fuori la sala numero 5 del Metropolitan. La proiezione del film era già iniziata. Salendo con attenzione i gradini bui del cinema, ho preso posto e ho iniziato a guardare con interesse la pellicola. Anime nere è un film intenso, ricco di atmosfere cupe, dove il male corrompe, consuma e strazia. Ambientato ad Africo, in Calabria, l’opera di Munzi racconta la storia di tre fratelli vicini alla ndrangheta, cresciuti nell’odio per l’uomo che ha ammazzato il padre, un pastore dell’Aspromonte che si è fatto coinvolgere in un sequestro di persona. I tre uomini reagiscono in modo diverso al dolore e conducono esistenze parallele: il più anziano, Luciano, è rimasto al paese e per sopravvivere fa il pastore; il più giovane, Luigi, è un trafficante internazionale di droga mentre il mediano, Rocco, fa l’imprenditore a Milano grazie ai soldi sporchi del secondo. La guerra tra clan scoppia quando Leo, il figlio ribelle di Luciano, per una lite banale compie un atto intimidatorio contro un bar protetto dal clan rivale. Le conseguenze sono devastanti per tutti e il vortice di violenza diventa sempre più distruttivo e autodistruttivo.
Interrogato dalla stampa e dagli studenti della scuola di cinema Pigrecoemme, Francesco Munzi ha raccontato che la pellicola è tratta dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco ed è recitata in dialetto perché “il dialetto è un personaggio del film e rivendica l’alterità del luogo rispetto al resto d’Italia”. Un luogo con cui gli abitanti hanno un rapporto viscerale, un ambiente aspro, “oppresso e depresso” per usare le parole di Munzi. Il film è molto evocativo. Anche il finale è sospeso, affidato all’immaginazione e alla forza dello sguardo “che sopperisce alle parole, perché ciò che si dice non è ciò che si pensa”. Molti personaggi del film non sono attori ma persone del posto che hanno deciso di prendere parte alla pellicola “per il bisogno di fare qualcosa di bello” in una terra ferita e avvelenata dalla malavita.
Al termine dell’incontro, sono tornata a casa, ma avrei continuato con piacere a girovagare tra i luoghi del Festival, a caccia di anteprime e proiezioni. Una cosa però l’ho portata con me. Non parlo del cartonato di Inside out e neppure di una foto con Sergio Assisi, ma dell’emozione inedita di vedere il mio nome nella lista degli accreditati.