Ricordare. Perché ricordare? Perché non dimenticare l’orrore? In un certo senso ricordare qualcosa significa farlo “tornare in vita”, regalargli l’immortalità (come ci rivela Shakespeare nel suo meraviglioso Sonnet XVIII). Ed è giusto, quindi, aver memoria del capitolo più triste della storia europea? La mia risposta è sì, è giusto. È giusto ma non bello, non per noi eredi di questo triste fardello. È giusto ma non utile, forse, perché non riporta in vita le vittime e non fa che fomentare l’odio nel nostro cuore nei confronti dei carnefici, rendendoci per un giorno solo dei vuoti perbenisti, degli indignati senza senso (con le dovute eccezioni di chi ha, purtroppo, conserva un legame reale con questi avvenimenti).
E allora perché è giusto? Per l’identità. Perché i nomi delle vittime, o anche i loro “codici”, o i nomi dei Campi in cui sono state internate, meritano di essere ricordati. Perché solo ricordando i loro nomi – scusate la tautologia – ricordiamo veramente che erano persone.
Ed è proprio il valore del “nome”, l’affermazione del sé dove la disumanità ha privato i prigionieri del senso più intimo di coscienza e appartenenza, il nodo centrale di Acido Solforico di Amelie Nothomb. La famosa scrittrice belga si scaglia duramente contro la società di oggi che “finge di deplorare la sofferenza spettacolo, ma non se ne perde una puntata”. Chi può negarlo?
Questo breve romanzo esce un po’ fuori i cardini dello stile narrativo “nothobiano”: l’ironia, la qualità intrinseca della sua scrittura, è ridotta ai minimi termini, per mischiare e deliberatamente confondere le strutture di un reality show che utilizza le stesse regole di un campo di concentramento nazista. Una mossa rischiosa e un tantino azzardata, tanto da farle ricevere una pioggia di critiche… da chi si ferma alla superficie.
Mini-plot di Acido Solforico di Amelie Nothomb
Per le vie di Parigi una troupe televisiva recluta i concorrenti del programma “Concentramento” che vengono caricati anche contro la loro volontà su vagoni piombati e internati nel campo/set televisivo. Qui vengono suddivisi con una approssimativa valutazione in prigionieri e kapò. Inizia così il reality che registra il picco dell’audience quando i telespettatori sono chiamati da casa a televotare l’eliminazione-esecuzione (reale) di un concorrente dallo show. Nella massa indefinita degli internati si stagliano, però, due figure principali: la pura, eroica, CZK-114, che con il mistero mistero del suo nome diventa per l’altra protagonista, la rozza, stupida ed empia Zedna, croce e delizia dell’intera storia. Ed è proprio dalla rivelazione del nome di CKZ-114 a insediare il seme del cambiamento, non tanto nei suoi compagni di prigionia, quanto nei kapò e nei telespettatori che per la prima volta iniziano a rendersi conto che quelle che mandano a morte con un click del telecomando sono persone. Persone reali.
Un’opera feroce e cinica, che celebra la potenza dell’identità attraverso il nome e che esprime “disgusto” in ogni sua riga. Disgusto per i kapò, uomini reietti e senza personalità nel vero mondo, che riescono finalmente a farsi valere grazie alla violenza; disgusto per gli ideatori e gli esecutori del programma, interessati meramente allo share con la mercificazione del dolore fisico e psicologico dei prigionieri; disgusto anche per le vittime stesse succubi pecore pronte alle più atroci (giustificate?) umiliazioni per una barretta di cioccolata o per evitare l’eliminazione; infine disgusto, il più grande, per telespettatori e giornali che pur demonizzando il programma ed indignandosi per ciò che accade, finiscono per restare incollati davanti allo schermo, facendone aumentare popolarità e share. Come fare, allora, per mettere fine all’orrore? Amelie Nothomb risponde a questa domanda così:
Perché, secondo lei, la gente, nonostante si dichiari disgustata dai reality, finisce, poi, con il guardarli?
Per rispondere a questa domanda, dovremmo chiederci se essere indignati abbia un’efficacia, oggi. La stessa indignazione fa parte, infatti, della pubblicità. Chi organizza questo tipo di trasmissione, credo, giochi molto su questo sentimento. Ed è per questo che io propongo di boicottare questo tipo di spettacolo, in cui domina il disprezzo nei confronti dell’umanità. Tutti disprezzano tutti. Gli organizzatori disprezzano i partecipanti, i partecipanti disprezzano gli organizzatori. È un circolo vizioso di disprezzo che non finisce mai.
Quindi spegnete la televisione, smettetela di stare solo a guardare e immergetevi in queste amare e lucide 140 pagine, che si leggono tutte d’un fiato. Garantito!