Gli Oscar 2016 si sono conclusi pochi giorni fa e finalmente Leonardo DiCaprio ha ricevuto la sua meritata statuetta per il film The Revenant, dopo anni di attese deluse e fiumi di battute umoristiche. Il successo di DiCaprio ha monopolizzato l’attenzione dei media (ammetto che come tutti i nostalgici del Titanic anch’io ho trovato commovente l’abbraccio tra il nostro Leo e la sua amica storica Kate Winslet), ma temo che l’umana partecipazione alla gioia del divo redivivo abbia messo in ombra la pellicola diretta dal regista Tom McCarthy che si è aggiudicata il premio come miglior film.
Intendo dunque riportare i riflettori su Il caso Spotlight, controverso film che celebra l’importanza del giornalismo d’inchiesta e il diritto inalienabile alla giustizia, come in cielo così in terra.
La pellicola si ispira ad una storia vera. Quando il neodirettore Marty Baron (Liev Schrieber) arriva da Miami per dirigere il Globe nell’estate del 2001, per prima cosa incarica il team Spotlight di indagare sulla notizia di cronaca di un prete locale accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani nel corso di trent’anni. Consapevoli dei rischi cui vanno incontro mettendosi contro un’istituzione come la Chiesa cattolica di Boston, il caporedattore del team, Walter Robinson (Michael Keaton), i cronisti Sacha Pfeiffer (Rachel MacAdams) e Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d’Arcy James) cominciano a indagare sul caso.
Il muro di omertà a poco a poco si frantuma: grazie ad un certosino lavoro di ricerca, grazie ad un’accurata attività d’indagine, i reporter riescono a far luce sulle colpe di almeno 87 preti, rei di abusi sessuali su minori. Ma c’è qualcosa di più grave oltre il crimine: è l’insabbiamento da parte di chi sapeva e ha taciuto, è il compromesso dei garanti della giustizia con il male, è la complicità delle istituzioni, religiose e laiche, con chi abusa del proprio potere e violenta nel fisico e nello spirito i più deboli. Confessa Phil Saviano, una delle coraggiose vittime che per anni ha chiesto giustizia contro chi lo ha derubato dell’innocenza e della fede.
“Quando sei un bambino povero di una famiglia povera e un prete si interessa a te è una gran cosa….Come puoi dire no a Dio?”
Il film può contare su una sceneggiatura sobria e pulita, senza cadere nel facile pietismo melodrammatico o stucchevole. Non c’è il sensazionalismo da prima pagina o lo sciacallaggio da giornaletto scandalistico, tutta la vicenda è ricostruita con un’obiettività asciutta e lineare, ma non fredda, rispettando sia il silenzio che la parola della parte lesa, il cui dramma è affrontato in maniera scrupolosa e delicata.
Ho adorato tutti gli attori della pellicola, fedeli ai personaggi interpretati nella mimica e nell’azione, ma voglio fare il mio plauso personale a Mark Ruffalo, che è riuscito a dar voce all’indignazione, al dissenso e alla vergogna di chi lavora duramente per portare alla luce verità scomode, svolgendo il proprio mestiere con passione e sacrificio, in nome di una fede comune, quella nella giustizia.
Il film ha inoltre il merito di non demonizzare tutta la Chiesa: anche i reporter hanno le loro responsabilità e sono chiamati a rispondere delle proprie colpe al severo tribunale della coscienza. Citando il direttore del Globe Marty Baron
“a volte dimentichiamo facilmente che passiamo il tempo a brancolare nel buio… all’improvviso si accende una luce e lì subentra la colpa di continuare a vagare”.
Chi è senza peccato, ora, scagli la prima pietra.