Oggi vi parlo dello spettacolo La Terza Comunione andato in scena al TAV lo scorso weekend. Ma prima di farlo, esordisco col dire che a me solitamente la comicità mi fa deprimere. Lo so, è strano, ma ho un basso livello di tolleranza alle risate spicciole. I comici per strapparmi un sorriso devono “sudare”, perché sono un po’ esigente: mi piacciono le battute taglienti ma non troppo “intellettuali”, mi piacciono le situazioni comiche ma non paradossali, mi piacciono le allusioni, ma non le espressioni volgari. Questo perfetto equilibrio (che io reputo innato solo per il compianto Massimo Troisi) è molto difficile da raggiungere, ecco perché di solito quando posso scegliere tra le varie pièce di un cartellone “mi butto sulle tragedie”.
Ed è qui che inizia la mia recensione de La Terza Comunione, scritta e diretta da Mario Gelardi e con l’interpretazione di Carlo Caracciolo, Luigi Credendino e Ciro Pellegrino, perché anche con un pizzico di sorpresa, mi sono divertita davvero nel guardare le tre comari (evidentemente) del sud nel loro habitat più congeniale: una chiesa.
Palcoscenico nudo, eccezion fatta di una panca. Solo tre protagonisti/e. Tanti cliché utilizzati in maniera molto originale e coinvolgente.
La trama è semplice: in un paesino non identificato del profondo sud tre vecchie comari si ritrovano casualmente ad assistere alla incapacità di una bambina di ricevere la prima comunione. Al momento di accogliere l’ostia, infatti, la bambina sembra strozzarsi e rigetta il Corpo di Cristo. Questo insolito avvenimento da adito a pettegolezzi a tutto spiano riguardanti l’accaduto, soprattutto quando succede per ben tre volte e in tre occasioni diverse (fino, appunto, alla sua terza comunione…).
La Terza Comunione è uno spettacolo tutto da vedere e poco da raccontare, perché quello che davvero ti conquista è la familiarità con i siparietti rappresentati. Donne che bisbigliano durante la messa, che partecipano solo ai momenti corali della predica, che scelgono la funzione in base all’“evento” di cui sparlare, che cedono a qualche piccolo peccatuccio, ma sempre nel nome del Signore.
“Si tratta della voce ancestrale di quella comunità di donne che una volta affollavano le chiese. Unite come un solo popolo, una sola entità, il gruppo di donne che dicevano il rosario, come una nenia cantilenante o che cantavano le canzoni sacre, è un’immagine indelebile nella memoria di ognuno. Ed è un’immagine che resiste al tempo, basta gettare uno sguardo distratto tra i banchi di una chiesa prima che cominci una qualsiasi celebrazione” (Nuovo Teatro Sanità)
Ne esce uno spaccato di realtà, più che di finzione: ricordi ancorati alla nostra memoria, dal momento che le espressioni facciali e verbali delle tre donne ci richiamano le nostre nonne. Ecco perché fa ridere di gusto: perché riconosciamo quelle gestualità e quei riti, perché ci appartengono, sono parte delle nostre radici culturali. Ammettiamolo: possiamo chiamarlo pregiudizio “che a sud nessuno si fa i fatti suoi”, però non è poi così infondato.
Apprezzabilissima l’interpretazione degli attori, ma permettetemi una menzione speciale a Luigi Credentino, davvero perfetto nella parte: gesti, espressioni, movimenti, perfino le pause tra una parola e l’altra erano di un realismo spiazzante. L’ho adorato dalla prima all’ultima battuta.
Insomma, La Terza Comunione vuol denunciare l’ipocrisia di chi va in chiesa per mera abitudine e per vuota fede, di chi predica bene e razzola male, tuttavia non lo fa con cattiveria, piuttosto con una presa di coscienza che assolve in una risata anche il pettegolezzo più cattivo.