di Biagio Granata
Circa un mese fa sulla piattaforma Charge.org è stata lanciata una petizione affinché l’unica opera “italiana” di Banksy, presente a Napoli, in Piazza Gerolamini, venisse protetta con una bacheca. Trattasi della Madonna con la pistola anche se la figura ritratta sarebbe una Santa vista l’assenza di elementi iconografici quali un velo, una corona di stelle ma, soprattutto, perché ispirata quasi sicuramente a Santa Agnese sul rogo scolpita da Ercole Ferrata nel 1660 e custodita nella chiesa omonima in Piazza Navona a Roma.
Banksy è uno dei più noti esponenti della Street Art.
La sua fama è legata a un nome fittizio, a un viso mai mostrato, al più completo anonimato. Un’operazione quasi impossibile al giorno d’oggi – dove la privacy è sempre più difficile da conservare anche per un semplice cittadino – ma che accomuna molti nomi di questo movimento, la cui prerogativa è la meticolosa premeditazione che è a monte di ogni opera, che sia essa eseguita con bombolette spray, adesivi o con lo stencil come nel caso della Madonna.
E la peculiarità dell’opera di Banksy è la partecipazione collettiva, pubblica e sociale, consapevole o inconsapevole, del luogo in cui l’opera prende vita e dei suoi passanti. Questa volontà di collaborazione è il perno intorno cui ruota tutta l’arte di Banksy. E, talvolta, può essere anche distruttiva.
La Street Art, per sua genesi, non può essere preservata. E’ sottoposta alla legge della strada. Con tutti i rischi connessi. È destinata all’usura, alla cancellazione e anche alla deturpazione. Per poi rinascere altrove.
Proprio come la gramigna: cresce ovunque anche se provi a eliminarla. “Deturpa” per sua natura. E, a sua volta, può essere “deturpata”. È la contraddizione propria alla Street Art, che nasce ai margini del sistema ma che il sistema alimenta. Quindi lasciamo che la Madonna percorra il suo naturale ciclo di vita. Costiparla dietro una bacheca vorrebbe dire interrompere la sua interazione con il pubblico. Se Banksy avesse voluto salvaguardare le sue opere non avrebbe scelto la strada come “contenitore”. Sebbene, purtroppo, ci siano oggi opere “protette” da teche e istituzioni, abbandonate all’incuria, sottratte alla collettività e tradite da chi doveva tutelarle.
Banksy, invece, non tradisce alcun ideale. La sua arte è illegale nella accezione underground del termine: è considerata atto di vandalismo dalle autorità, ma rappresenta una contrapposizione intellettuale, sociale, graffiante e intelligente a ogni forma di potere, la cui valenza etica assume maggiore peso quanto più è temporanea la sua manifestazione.
Un’opera di Street Art è a tempo determinato. Ha carattere urgente. Spesso, con la consapevole accettazione del suo autore. Basti pensare a Tour Paris 13, un’esposizione che ha raccolto a Parigi tra Settembre e Ottobre del 2013 più di 100 opere di street artists provenienti da ogni parte del mondo in un grattacielo di 9 piani che da lì a pochi mesi sarebbe stato demolito. Una sorta di eutanasia artistica la cui eco rimbalzava sempre più forte man mano che il countdown inesorabilmente faceva il suo corso.
Anche le stesse opere di Banksy hanno avuto vita breve. Sono state vandalizzate dopo poche ore dalla loro comparsa, “taggate” con scritte di protesta a New York oppure completamente ricoperte da altri murales come nel caso dello stencil in via Benedetto Croce a Napoli, ispirato dall’Estasi della beata Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini.
Così come il Pasolini di Ernest Pignon, oggetto di alcuni strappi dopo la sua apparizione sulle mura del Monastero di Santa Chiara a Napoli.
E’ la vita della Street Art. E’ il suo corso naturale.
Il suo scopo non è quello di mostrare il prodotto finito, perfetto, bello esteticamente. Ma bensì il processo di creazione, interazione e l’esperienza umana rara che l’ha resa possibile.
Quindi niente teca, grata o protezione per Banksy.
Banksy, come tutta la Street Art, deve respirare, deve vivere.
E, come tutta la Street Art, deve morire.