C’era davvero bisogno dell’ennesimo articolo sulla quarantena per l’epidemia di COVID-19? Questo dubbio ha messo radici mentre scrivevo, fino a sbocciare nella forma di domanda quando mi accingevo a stilare la conclusione ormai rieditata della prima versione di questo post, dopo un primo goffo tentativo di tradurre per poi sintetizzare l’articolo The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence.
Come i miei maestri e le mie maestre mi hanno insegnato a fare nei casi in cui i dubbi mi attanagliano, mi sono fermato. Ho preso tempo per pensare e ripensare (tanto in questo periodo proprio non mi manca). E quando ho pensato, ho iniziato a capire cos’è che non vorrei leggere e quindi cos’è che non avrei voluto scrivere.
A seguito di questo processo, ho deciso che in questo post
- non troverete soluzioni, e forse nemmeno rassicurazioni, in merito a COME vivere questa quarantena senza disagio. Io mi sento a disagio e penso che ognuno di noi abbia diritto di esprimere e accettare che siamo in difficoltà, senza fingere che non ne abbiamo, senza sentirci in colpa perché più o meno a rischio di altri, più o meno fortunati di altri ancora. Tutti stiamo perdendo qualcosa e la pratica di trovare il bello nel brutto, il bene nel male, il dilettevole nello sgradevole, è un esercizio sicuramente più difficile dei tanti work-out che (fortunatamente) stanno spopolando in giro per il web. L’attesa è il più faticoso degli allenamenti.
- non otterrete consigli su COSA fare e non fare per impegnare le vostre giornate in attività: dallo yoga alla moussaka, dalle letture ai telefilm, se ci interessano davvero, sappiamo come informarci, sceglierli e trovarli, senza pedanti consigli sulla programmazione della nostra giornata, che ci ricordano di svegliarci presto, di lavare almeno due volte al giorno i denti, di non saltare i pasti e di aggiungere il sale quando caliamo la pasta.
- non avrete indicazioni su DOVE stare, tanto ce lo ribadiscono continuamente gli asfissianti hashtag sulle bacheche facebook dei nostri amici delle scuole elementari, che non ricordiamo nemmeno di avere aggiunto (e forse era meglio fossero rimasti relegati nell’oblio).
- non avrete garanzie sul QUANDO di questo tempo sospeso che sembra non passare mai, in giornate che poi finiscono lasciandoci la sensazione di aver concluso un bel niente (anche se, a essere onesti, più avanti nell’articolo si parlerà dell’importanza della dimensione temporale).
- ovviamente non verrà fatto riferimento al PERCHÉ, sarebbe fin troppo ridondante.
Adesso che ho chiarito che questo post intenzionalmente sovvertirà la regola della 5 W, le famose Five Ws che ricordano a ogni giornalista (tanto io sono a stento un blogger) le domande da tener presente nella stesura di un articolo – dopo essermi preso la libertà di aggiungere l’H di how (come?) – do almeno il giusto spazio al WHO (chi?) perché è doveroso citare Samantha K Brooks, Rebecca K Webster, Louise E Smith, Lisa Woodland, Simon Wessely, Neil Greenberg, Gideon James Rubin, il cui lavoro ha ispirato questo post.
Il Lancet sull’impatto psicologico della quarantena
Basandosi sulla letteratura scientifica già a disposizione, in un recente articolo pubblicato dal Lancet, una delle più famose riviste scientifiche inglesi di riferimento per l’ambito medico e sanitario, gli autori hanno provato a indagare gli effetti psicologici della quarantena, con l’obiettivo di fornire delle linee-guida che i governi potrebbero seguire per adottare misure di attenuazione dell’impatto.
Ne è venuta fuori un’interessante rassegna delle precedenti ricerche condotte sugli effetti della quarantena impattanti sulla psiche, durante e dopo la quarantena. Si fa, infatti, riferimento ad anteriori (ma non troppo remote) situazioni, in cui la quarantena è stata adottata da alcuni governi come misura per contrastare la diffusione epidemica di nuovi virus, nello specifico del:
- virus SARS-CoV, causa della polmonite atipica nota come Sindrome Respiratoria Acuta Grave (più conosciuta con la sigla SARS);
- sottotipo H1N1 del virus dell’influenza A, causa dell’Influenza Suina;
- virus MERS-CoV, causa della Sindrome Respiratoria Mediorientale da Coronavirus;
- sottotipo H3N8 del virus influenzale A, causa dell’Influenza Equina;
- virus EBOV, rinominato “virus Ebola”, causa dell’Epidemia di Febbre Emorragica.
Secondo l’articolo, prima dell’epidemia da Covid-19 in Wuhan e poi in Italia, i più importanti casi in cui un governo ha adottato la scelta di mettere in quarantena intere città si sono visti in Cina e in Canada durante l’epidemia di SARS del 2003, e in alcuni paesi africani durante l’epidemia di Ebola del 2014. La situazione che stiamo vivendo è quindi nuova, non tanto per il tipo di misura adottata (basti pensare che nel 1347 Venezia usò la quarantena per contrastare il dilagare della peste, la Morte Nera, istituendo i primi lazzaretti), ma per la dimensione della popolazione implicata.
Quarantena e disagio psicologico
Non ci sono state abbastanza ricerche per poter tirare le somme in maniera definitiva, ma c’è un numero di testimonianze abbastanza considerevole da permettere comunque di fare ipotesi e di tracciare se non una mappa, almeno una bozza di piantina. Se sono già evidenti i danni apportati al sistema economico, le lacerazioni al tessuto sociale che già prima erano a malapena rattoppate, il disagio psicologico che sta progressivamente emergendo potrebbe essere solo la punta di un iceberg che rimarrà a galla per un bel po’.
In alcune fasce del campione intervistato nelle ricerche, si è evinto che i segni di questa condizione possono persistere fino a tre anni dopo la quarantena o addirittura aggravarsi, soprattutto negli operatori sanitari (che sono stati più esposti ad agenti traumatizzanti) e in persone che già devono convivere con una fragilità psichica.
In ogni caso, la lettura di questa rassegna del Lancet suggerisce che terminare la quarantena non equivale a uscire dalla quarantena, che potrebbe essersi incistata sul piano psichico e relazionale. Anche se disagio psicologico è un termine che sto usando in maniera molto eufenistica (e purtroppo senza alcun guizzo poetico cui la figura retorica dell’eufenismo potrebbe far pensare) quando faccio riferimento alla costellazione di sintomi psicologici che possono affiorare.
Nelle ricerche si fa riferimento a stress, umore depresso, irritabilità, insonnia, rabbia, difficoltà emotive, distacco dagli altri, ansia, solo per citare quelli più frequenti. Nonostante molti sintomi siano riconducibili allo stress post-traumatico, valutati in base alla Scala di Impatto dell’Evento di Weiss & Marmar, il DSM-V (ovvero il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che è uno dei principali sistemi nosografici di riferimento per orientarsi nel marasma di disturbi mentali e psicopatologie) non contempla la quarantena tra i criteri diagnostici per il Disturbo Post-Traumatico da Stress. Alla luce di ciò e di altri fattori, come suggerisce la psicologa Claudia Perdighe, è lecito chiedersi se è utile parlare di trauma.
Forse no.
Lecito, però, potrebbe essere porsi delle domande su cos’è che lascia un solco simile al trauma, laddove effettivamente non c’è stata esposizione diretta o indiretta a un trauma.
I principali stressor per la psiche
Nella review of evidence pubblicata sul Lancet gli autori hanno enucleato tra i principali stressor di una quarantena:
- durata prolungata e tempistiche non stabilite a priori;
- paura di infettarsi e – ancora di più – di infettare gli altri, soprattutto i familiari;
- noia e frustrazione causati da reclusione, dalla perdita delle abitudini, e dalla riduzione di contatto sociale e fisico;
- rifornimenti carenti, non soltanto dei beni di prima necessità;
- informazione inadeguata, manchevole o poco chiara.
A questo elenco si aggiungono gli stressor che possono verificarsi dopo la quarantena, in primis le difficoltà finanziarie (causate da cali nella propria attività o da perdita di lavoro) e la possibile stigmatizzazione sociale nel proprio contesto di vita (dai colleghi ai vicini, ma anche dai conoscenti).
Vi riporto nella schema di seguito, liberamente tradotto, l’elenco di quelli che gli autori definiscono i messaggi-chiave della loro rassegna:
- L’informazione è il cardine: le persone che sono state quarantenate hanno bisogno di capire la situazione
- È essenziale una comunicazione rapida ed efficace
- È necessario rifornire rifornimenti (sia generici, che medicinali)
- Il periodo di quarantena dovrebbe essere breve e la durata non dovrebbe subire variazioni, se non in circostanze estreme
- La maggior parte degli effetti negativi deriva dall’imposizione di una restrizione di libertà; la quarantena volontaria è associata a minore sofferenza e porta meno complicazioni a lungo termine
- Gli amministratori di sanità pubblica dovrebbero enfatizzare la scelta altruistica di auto-isolamento
Fortunatamente alcune deduzioni sono lapalissiane, intuibili e addirittura prevedibili, anche per chi non ha un bagaglio di conoscenze psicologiche. Tralasciando la questione dei rifornimenti, che subito mi ha fatto venire in mente la famosa questione delle mascherine divenute sempre più obbligatorie ma anche sempre più insufficienti per tutti, è evidente che, a oggi, i punti principali in cui siamo più carenti in Italia sono la comunicazione e la durata prestabilita (volendo anche la scelta altruistica dell’auto-isolamento, ma visto il panico nelle prime settimane di diffusione, soprassederei su questo punto).
Sul piano comunicativo, da un lato viviamo un flusso incessante di sovrainformazione, dall’altro c’è una contraddittorietà di indicazioni e direttive, dai vertici quanto dai media.
Il jogging è concesso?
Quando possono uscire i bambini?
Tra ganasce e lanciafiamme posso fare un solitario giro in bicicletta?
Tutto ciò senza contare l’affastellarsi di fake news, in cui spesso inciampiamo e che contribuiscono a creare ulteriore confusione.
L’altro nodo cruciale è avere un minimo di orientamento sulla durata di questa misura che inizia a sembrare senza fine, mentre darebbe spazio alla speranza sapere che l’ultimo sforzo è davvero l’ultimo sforzo, anche dovesse abbracciare un lungo arco temporale purché definito. Nell’epoca del precariato, il concetto di tempo determinato non è mai suonato così allettante e, almeno in me, comincia a fluttuare la domanda:
quest’anno Pasqua con chi puoi, ma almeno Natale sarà con i tuoi?
Ormai sta andando così e sarà difficile aggiustare il tiro a stretto giro, per cui possiamo solo accettare questa condizione, comune a quella che solitamente i pazienti ospedalizzati (non solo i ‘coronici‘) sperimentano quando lottano per guarire da un malanno, senza sapere i tempi del decorso di una malattia (e a volte senza sapere nemmeno se si guarirà). Continueremo l’esercizio dell’attesa.
Alcune considerazioni
Nei giorni scorsi, quando ho visto la famosa foto satellitare della NASA che ha mostrato l’enorme declino dei livelli di inquinamento sulla Cina, dovuto al rallentamento economico provocato dalle misure di contenimento, mi è tornato in mente Good omens. Le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, strega romanzo fantasy di Neil Gaiman del 1990, recentemente adattato da Amazon Prime in una serie tv. Il romanzo narra l’alleanza, che cela un’imbarazzata amicizia, tra un angelo e un demone, così appassionati della Terra che si prodigano nell’impedire che un bambino diventi l’anticristo dando il là alla fine del mondo. I quattro Cavalieri dell’Apocalisse, convocati per inscenare l’Armageddon, sono i classici Morte, Guerra, Carestia… e la new entry Inquinamento, che avrebbe preso il posto di Pestilenza, il (o la) quale non riesce più a fare il proprio dovere di piaga a causa dei progressi della medicina dopo la scoperta della penicillina.
Il fatto che l’inquinamento e la pestilenza (la intendo in senso lato di epidemia) siano così collegate, in una maniera quasi circolare, non solo nella fiction ma anche nella realtà, mi ha fatto dapprima adorare ancor di più Neil Gaiman per le sue intuizioni narrative, e poi pensare agli isomorfismi tra il micro e il macro nei sistemi viventi.
A come un minuscola entità biologica (un microsistema), che per sopravvivere e replicarsi debba attaccare le cellule di un organismo vivente finendo per ucciderlo (anche se non gli converrebbe), possa destabilizzare un’intera civiltà; così come una società di individui (un macrosistema) finisca per corrodere le risorse di un pianeta finendo per depauperarlo, corromperlo, inquinarlo (anche se non gli converrebbe). Stando a diversi articoli, pare che la combinazione di deforestazione e allevamento massivo stiano favorendo la nascita (o meglio l’evoluzione) di nuovi virus nei confronti dei quali l’umanità non ha sviluppato ancora difese immunitarie.
Avendo come riferimento epistemologico la prospettiva ecologica e la relativa teorizzazione sulla patologia delle macroecologie, ovvero i grandi sistemi viventi che includono le civiltà umane, la proliferazione di uno di questi virus (il covid-19, ma potremmo anche chiamarlo il nuovo volto di Pestilenza) diventa così l’esempio lampante di quello che succede quando, ignorando la circolarità dei sistemi e tentando di controllare una parte del sistema cui apparteniamo, generiamo quella che lo psicoterapeuta Giovanni Madonna definisce cecità sistemica.
In riferimento agli effetti della quarantena, forse ciò che ho definito un solco simile al trauma attiene a tutto ciò, nel micro come nel macro: formare troppo rapidamente nuove abitudini di pensiero e perdere altrettanto repentinamente vecchie abitudini di pensiero.
Un eccesso di rigidità in un verso, che è anche riduzione di flessibilità dall’altro.
Una separazione troppo brusca che, per alcune persone più che per altre, potrebbe essere in un futuro prossimo troppo difficile da connettere e riconnettere.
Sappiamo già che, anche se la quarantena sembra essere la soluzione migliore nel qui e ora di quest’Italia martoriata, avrà delle ripercussioni, sociali e inevitabilmente psicologiche.
In attesa di tempi migliori, un’attesa fertile che possa generarli, possono venirci in aiuto le metafore per trovare nuovi modi di raccontare questa terribile storia. Nella narrazione sociale di ciò che stiamo vivendo, alcuni intellettuali stanno infatti provando a immaginare nuove metafore, che vadano oltre il linguaggio militare della pandemia, sdoganato dai media e dai social network.
Non è una guerra. Non è il nemico. Scrive Il Tascabile
La metafora della cura, che ho letto in un articolo firmato da Guido Dotti sul blog di Sergio Staino, ma riportata in un’intervista anche dallo psichiatra e psicoterapeuta Luigi Cancrini, esprime un concetto che mi rende più sopportabili queste giornate di quarantena, ma sono sicuro che in questa attesa galleggiante potremmo generarne altre ancora, altrettanto evocative e resilienti, che possano coltivare senso di comunità e responsabilità sociale.
Riferimenti bibliografici
AA.VV. (2020) The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence, articolo pubblicato in The Lancet 2020; 395: 912–20, Elsevier.
Bateson G. (1972), Verso un’ecologia della mente, Adelphi.
Gaiman N. (1990), Good omens. Le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, strega, Mondadori.
Madonna G., De Martino R. (2017) Verso Una Clinica Delle Macroecologie – L’intervento clinico psicologico nei grandi sistemi viventi: il caso di Napoli in Treatment, Franco Angeli Editore.
Illustrazioni
La cover dell’articolo è tratta da “Critical Mass”, illustrazione di Christoph Niemann per il New Yorker del 23 Marzo 2020.
I credits delle altre illustrazioni di Jean Jullien, Wenkai Mao, Christoph Niemann, Lorraine Sorlet sono indicati sotto le immagini.
1 comment
[…] Quello che stiamo vivendo si sta ripercuotendo a livello psicologico in modo significativo, facendo affiorare sintomi molto simili a quelli che seguono un vero e proprio trauma (per approfondire questo argomento date un’occhiata al nostro articolo sull’impatto psicologico della quarantena). […]