Eravamo tra gli spettatori della prima assoluta di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” al Bellini di Napoli e voglio iniziare citando Maurizio de Giovanni, autore della riscrittura di questo riadattamento teatrale del romanzo cult (e ancor di più il film) di Ken Kesey:
Le Grandi Storie si riconoscono subito.
Si possono leggere nei libri o vedere al cinema; si possono incontrare per caso, nelle parole di un anziano, o ascoltare alla radio; ci si può imbattere in una di esse in televisione, o intuirne qualcuna da una notizia su un giornale o sul web. Le Grandi Storie non necessitano di una forma precisa, perché vanno direttamente a ferire la superficie dell’anima e lasciano un’indimenticabile, meravigliosa cicatrice.
Questo credo sia il cuore dello spettacolo andato in scena al teatro napoletano: un folle azzardo quello di de Giovanni e Gassman, perché misurarsi con una “Grande Storia” è un compito difficile. Difficile staccarsi dal “peso dell’originale” entrato, ormai, nella memoria collettiva, difficile decontestualizzare la storia e trasportarla in tempi e luoghi differenti preservando l’autenticità di una realtà legata indissolubilmente alla terra in cui è ambientata, difficile conservare il pathos e il coinvolgimento di spettatori che conoscono già trama ed epilogo.
Direi che l’azzardo degli autori è stato ripagato mettendo in scena un’opera che non sembra scimmiottare Dale Wesserman, anzi conferisce con la napoletaneità quel guizzo e quel tocco di originalità che serve a rendere leggera (ma non superficiale) tutta la narrazione.
Raramente, infatti, mi è capitato di assistere ad applausi spontanei del pubblico nel corso dello svolgimento della pièce, così come il sorriso strappato dal bravo Daniele Russo (che ho avuto già modo di apprezzare in Dignità Autonome di Prostituzione nei panni dell’eclettico/a Lia) era indotto dal suo essere uno scugnizzo davvero verosimile, con quel canticchiare Pino Daniele che a noi napoletani, amettiamolo, fa vibrare sempre le corde del cuore.
Insomma, non siamo più in California, ma all’ospedale psichiatrico di Aversa negli anni 80, anzi nell’82 per essere precisi, l’anno della vittoria italiana ai mondiali di calcio. Questo ci fa capire che tutto il mondo è paese e che un oceano (forse più) di distanza non cambia la situazione dei “pazzi” nelle vecchie strutture manicomiali, come gli autori hanno precisato durante la conferenza stampa al Bellini.
Ma non è la “pazzia” il tema principale di questo spettacolo, piuttosto la “libertà”: se dunque avete comprato il biglietto per avere un insight medico/scientifico/storico resterete delusi, perché è la società con le sue ipocrisie, la sua ottusità, il suo vuoto perbenismo ad essere il fulcro reale della rappresentazione. Delle psicomanie e psicopatie dei personaggi conosciamo poco, anzi pochissimo.
Quello che, però, è evidente è che “il mostro ha paura”. Cito Samuele Bersani ed una delle sue più belle canzoni perché esprime un concetto chiave di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”: i pazzi, quelli che noi ostracizziamo, rinchiudiamo, emarginiamo e ghettizziamo fisicamente e moralmente e cioè i mostri, i freak, gli strambi che tanto ci ripugnano e ci spaventano, ebbene, sono loro ad aver paura di noi. Sono loro a voler lasciare il mondo fuori e rifugiarsi in un microcosmo chiuso e ovattato dove le angherie e i soprusi degli inservienti e di Suor Lucia sono solo un “niente” rispetto a quel potrebbero trovare fuori. A quel che dovrebbero affrontare fuori. A quel che sarebbero costretti a subire fuori. Il manicomio diventa quindi una fuga, un escamotage alla vita e non una gabbia, una prigione.
Dario Danise (l’originale Randle McMurphy che si è dovuto misurare con la forza espressiva di un istrionico Jack Nicholson) è solo un infiltrato del caos che fa entrare nell’ospedale psichiatrico quel mondo accuratamente lasciato fuori, sovvertendo le regole di quel microcosmo ordinato e sicuro. Ma cosa succede se un organismo esterno minaccia il funzionamento di un sistema rodato e funzionante? Si innesca lo stesso meccanismo che si avvia nel nostro corpo quando viene attaccato da virus: il corpo cerca di espellerlo.
Ed è quello che accade in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. “Viene espulso l’elemento cancerogeno”, viene espulso perché un sistema per sua natura tende all’autoconservazione. E se è vero che nell’epilogo Ramon riesce allegoricamente a distruggere il simulacro che tiene incatenati gli “acuti” a quel microcosmo, è pur vero che la speranza di “libertà” resterà per gli altri pazienti una possibilità volontariamente e fatalmente non colta.
Non si può liberare chi non vuole essere liberato e non si può salvare chi non vuol essere salvato. E’ questa la truce verità di questo testo potente, e che rende “Qualcuno volò sul nido del cuculo” una Grande Storia: non sempre il supereroe riesce a salvare tutti quanti..
Tanti altri i temi suggeriti dallo spettacolo: il rapporto tra laicità e religione, l’omosessualità, l’abuso di potere nelle strutture pubbliche, la speculazione e la truffa economica a danno dei pazienti.
Non ho modo di affrontare tutte queste sfumature in un unico post, concludo facendo i complimenti a Gassman e de Giovanni, complimenti agli attori tutti, complimenti a chi ha curato la messa in scena e gli effetti: nonostante qualche sbavatura la prima è stata buona, veramente. Uno spettacolo che consiglierei particolarmente ai ragazzi delle scuole superiori.