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Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco è amaro

di Angelo Capasso

Vincent Van Gogh. L’odore Assordante del Bianco è uno degli spettacoli proposti dal ricco cartellone del Napoli Teatro Festival, che dal 5 giugno al 10 luglio riempirà il capoluogo campano con ben trentacinque giorni di rappresentazioni teatrali, concerti, balli, reading, proiezioni e provocazioni. O, per dirla in breve, con tutte le arti performative che possono essere rappresentate in teatro e che possono portare il “concetto” di teatro – praticamente – ovunque.

Con e senza palco.

Non è un propriamente un Fringe Festival, ma sicuramente ha un approccio che ne mutua alcuni elementi, trasformando un’intera metropoli e – in alcuni coraggiosi casi – le sue periferie, in un vero e proprio palcoscenico a cielo aperto.

Per la messa in scena del testo di Stefano Massini diretto da Alessandro Maggi si è scelto il Cortile d’onore del Palazzo Reale di Napoli. Al suo interno è allestito il palco, che riproduce una nivea, opalescente stanza di Saint-Paul-de-Manson, il manicomio di Saint-Remy-De-Provence a pochi chilometri dall’amata-odiata Arles. Siamo negli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh, da pochi mesi la sofferenza è esplosa in una follia trasbordante e potenzialmente pericolosa che ha implicato svariati ricoveri.

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Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco. PH Francesca Fago

Il mondo del pittore è totalmente stravolto, quasi capovolto dalla condizione in cui riversa: dalla immortale camera di Arles si ritrova in una stanza totalmente bianca e asettica; appassito il sogno della Casa Gialla (che nelle sue ambizioni doveva diventare un atelier per accogliere i più grandi artisti europei, a cominciare da Paul Gauguin), finisce relegato in quello che definisce un castello bianco, in cui si è volontariamente imprigionato senza riuscire più a uscirne.

La degenza a Saint-Remy, dove visse fasi alterne passando da periodi di iperattività a lunghe pause di profonda depressione, è la cornice in cui il pittore olandese interpretato da un calzante Alessandro Preziosi si mette a nudo in un atto unico, diviso in tre momenti che apparentemente si susseguono nell’arco di una giornata. Nel primo, forse il più riuscito e toccante, assistiamo alla fantasmatica visita di Theo Van Gogh (Massimo Nicolini), fratello che ebbe un ruolo fondamentale nella vita dell’artista, come dimostra la fitta corrispondenza grazie alla quale è stato possibile ricostruirne parzialmente la biografia. Nel secondo, che convince decisamente meno, c’è uno spiazzante cambio di registro e il pittore si scontra con l’equipe medica, dove gli infermieri Rolande (Vincenzo Zampa) e Gustave (Alessio Genchi) insieme al capo-sala Vernon-Lazàre (Francesco Biscione) sono i grotteschi rappresentati di una psichiatria desueta e ortodossa che dicomotizza follia e normalità. Nel terzo Vincent trova un alleato nella figura del direttore Peyron (Francesco Biscione), il quale attraverso pratiche psicoanalitiche più moderne prova ad aiutare il suo paziente, andando oltre la sua diagnosi fatta di vuote etichette come non violento, inoffensivo e socialmente placido. 

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Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco. PH Francesca Fago

È lo stesso Maggi a spiegare che attraverso un alternarsi di simmetrie semantiche e dissonanze cognitive

la messinscena ha l’obiettivo di riuscire a rappresentare sul palcoscenico il labile confine tra verità e finzione, tra follia e sanità, tra realtà e sogno, ponendo interrogativi sulla genesi e il ruolo dell’arte e sulla dimensione della libertà individuale.

Per farlo utilizza, però, un canovaccio classico e in parte scontato per storie che ruotano intorno alla psicopatologia e alla degenza in manicomio, sorretto dalla buona recitazione del protagonista e da dialoghi che ben descrivono la sete di colori vitali di un uomo straziato, che fino alla fine della sua vita non smise mai di cercarli nei campi di grani, nei cipressi, nei cieli, in quegli splendidi fiori che per nostra fortuna non appassiranno mai. 

Il titolo della pìece rievoca un’esperienza di sensazioni contrastanti tipica della sinestesia e proprio quel contrasto accompagna fino alla fine lo spettatore, confuso come e da Van Gogh.

Uscendo dal cortile, quando attraversando i giardini del Palazzo Reale accompagnati dalle note folk dei bravi Joe Martone & the travelling souls ci si ritrova immersi nel dopo-festival, l’odore assordante del bianco lascia il posto al dolce calore dell’oscurità notturna di una città che non smette di sedurre con le sue sinestesie, i suoi ossimori, le sue metonimie.

Forse a Van Gogh, che in vita si spinse nel sud della Francia alla spasmodica ricerca di nuove luci per la sua arte, sarebbe piaciuta una notte (leggermente) stellata come questa, in cui la sua biografia si è fatta teatro sotto il cielo di Napoli.

E, probabilmente, ne avrebbe anche sofferto.

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